giovedì 12 luglio 2012

vita snella.

Alla cassa, uno dei dipendenti mi sfreccia accanto urlando "fermo!! aspetta un po', tu!!". L'uomo in giacca a vento rimane congelato davanti alle porte scorrevoli: sconfitto, in attesa che il giovane cassiere nerboruto si precipiti a bloccargli la fuga. Non riesco a sentire le giustificazioni appena sussurrate del distinto e appena un po' trasandato ladruncolo, ma pare evidente che non contasse affatto di passare inosservato (come potrebbe, così intabarrato? Fuori ci saranno trentacinque gradi, cazzo): il tizio del supermercato lo sovrasta e gli urla in faccia con convinzione crescente "non me ne frega un cazzo, se sei disoccupato: togliti tutto, o chiamo i carabinieri! Noi non siamo qui a lavorare per te: non mi commuovi neanche un po'", e avanti così.
La ragazza bionda e paffutella che mi sta servendo osserva la scena con la bocca leggermente aperta; la mano, già svuotata del mio resto, inutilmente tesa verso di me. Pare così perfettamente brancolante che le luci tutt'intorno andrebbero spente, penso.
Quand'ero poco più d'un bimbo, i miei amici ed io ridemmo per mesi alla notizia che il locale campioncino di culturismo - un gigante munito d'un ligneo parrucchino che, persino più dei quotidiani bilancieri, gli rendeva ardui i movimenti nella piscina comunale dove pure noi sguazzavamo teppistelli - era stato pizzicato a rubare al supermercato svariate confezioni di vitasnella.
Tra questi due eventi momentaneamente compresenti, sento un'enormità la cui natura mi sfugge. Forse, è il tempo. O l'età.
Il giovane impiegato è più vicino a com'ero allora, ma dalla sua faccia tesa e dalla sua indignazione d'ordinanza traspare un dolore che non riconosco.
Per quel che ne sappiamo tutti, ora, potrebbe pure beccarsi una coltellata.
Nessuno fiata: è lo stesso spirito con cui la gente rallenta in autostrada per sbirciare gli incidenti, oppure sono tutti paralizzati dalla difficoltà di stabilire da che parte stia davvero il torto?
Saluto, attraverso col mio sacchetto biodegradabile lo spazio elettrico tra guardia e ladro, m'incammino verso casa.

Il lavoro presuppone che si accettino come assoluti i rapporti che contiene, è una bolla in cui tutti i pesci accettano di fingere che non esista uno spazio esterno. Così, come il cassiere non valuta, ora, un mondo là fuori dove un affamato lo aspetta nel vicolo buio brandendo vendicativo un grosso bastone, per il manager non esiste un luogo in cui i rapporti di forza sono regolati diversamente dall'innaturale stilizzato minuetto dell'ufficio. Eppure, da qualche parte, quel rimosso sopravvive, e andrebbe stimolato con maligna costanza.

La mattina dopo il grande terremoto, mi raggiunse alla macchina del caffè per dirmi di tenermi pronto: c'erano grosse oppurtunità di guadagno in arrivo. L'entusiasmo aziendale strideva con la sua faccia ottusa; negli occhi, l'unico segno di vita una lucina lontana, come di bambino che sta per metter le mani s'un giochino zozzo. Non mi conosceva ancora: iniziò lì, in quel momento. Non trovai parole. Ho avuto un'educazione bella, e son dunque sempre lento, impreparato all'orrore. E, quasi sempre, trasparente.
Quello che avrei dovuto dirgli, avendo cura di duplicare con voce secca e monotona la terrificante cerulea idiozia della sua faccia, era semplicemente "so dove abiti". Rompere la bolla. Incrinarla, almeno.

E lo so davvero, dove abiti, coglione. Lo so da quella lontana estate in cui alla guida del pandino vagavo per le tue valli cercando di consegnare la posta. Campi e boschi a dividere paesi composti a volte di due sole case: è da lì che vieni, da quelle minuscole oasi di megalomania seminate nel verde selvaggio e indifferente. Vagavo fino a sera inoltrata in preda alla disperazione, con la macchina ancora piena di lettere e pacchi e mai nessuna idea di dove svoltare: nessuna mappa, grossi sbavanti cani da guardia ben lieti di trovare una cazzo di preda in quel deserto, nidi di vespe nelle cassette della posta, vecchi semianalfabeti chiusi nei casolari ancora non bonificati dagli arricchiti come te.
Ricordo un guado, la Panda ferma, la seria contemplazione della possibilità di lanciarmi giù col piede ben pigiato sull'acceleratore. Per non dover tornare un'altra volta in ufficio con tutta quella robaccia da sommare alla robaccia del giorno dopo. Forse, pure per farla finita una volta per tutte con la fatica, con l'afa, la polvere, coi pranzi a base di crackers sbranati guidando, con quel futuro approssimativo che mi correva incontro.
Ero giovane.
Quando andai dal capo per licenziarmi, lamentando il fatto che niente e nessuno faceva in modo di rendere i miei compiti meno che impossibili, la ricurva, segaligna e solitamente muta addetta alle pulizie interruppe l'operazione di strofinamento per voltarsi verso di noi: "ha ragione!" disse quasi urlando, evidentemente dando fondo in quell'attimo a tutte le sue riserve di coraggio, "quel lavoro lì l'ho fatto pur'io, e ora sono ben contenta di pulire i cessi!!"

Anni dopo, eri a Londra per lavoro. Nella mail, mi chiedevi di ricavare da una fotografia allegata l'immagine del tuo certificato di laurea, facendo poi in modo che sembrasse il documento vero, originale. Nella foto, eri in giardino, in ciabatte da piscina e calzoncini corti. Nella tua semplicità, brutto e sfigato come sa essere solo chi si mette la cravatta pure per andare a buttare la spazzatura. Tutto tronfio, reggevi il papiro incorniciato d'oro.
Questa casa l'ho già vista, pensai.