giovedì 13 settembre 2012

quindicenne.

“Ti vedo, che mi guardi con odio”, m’hai detto quella volta là, nel tuo ufficio, dandomi l’ennesima prova della tua limitatissima conoscenza delle varietà e potenzialità dei sentimenti umani.

Un cenno, diapositiva, applausi.

Mia madre che torna a casa, dopo l’incontro coi professori. Mi dice che la tizia le ha fatto vedere le prove di alcuni miei dotatissimi compagni, e poi la mia. Quella là mi disprezza, perché non rido alle sue battute e non assecondo le balle che racconta: tutte storie della sua scapigliata gigantezza artistica, più che altro. Una volta m’ha pure tenuto un pomeriggio intero chiuso in uno sgabuzzino, a disegnare al buio. Dispiaciuta e un po’ imbarazzata, mia madre mi racconta che, effettivamente, alcune rose erano bellissime, e le mie, invece, decisamente rigide, opache, spente, bruttine. “Sembravano proprio di plastica”, mi dice. Sorridendo, già pregustando la portata mitica dell’aneddoto, tutto tronfio come un novello Giotto, le dico “le rose da copiare erano proprio di plastica, mamma, mica vere. Usiamo rose di plastica”.
Adesso so che, di allora, non è quella supposta precoce lucidità dello sguardo, che avrei dovuto conservare e coltivare. E neppure quella sbarazzina precisione nella rappresentazione che tanto m’inorgogliva.
È al mestiere, che avrei dovuto pensare. Solo al mestiere. Tenersi strette quel po’ di capacità per un fine preciso, ristretto.
L’arte è roba per mangiamerda.
Ed è come l’odio: a un certo punto non te lo puoi più permettere, e quando sparisce non lascia niente al suo posto.

Ricordo che, anni fa, venni strapagato per gestire le proiezioni powerpoint ad una ipermegaconvention milanese organizzata da una multinazionale farmaceutica.
Centinaia di medici e rappresentanti ad ascoltare, decine di relatori. Ad un cenno, cambiavo diapositiva: mai fare da soli, bene, ciò che può fare per noi, male, un apposito schiavetto.
Modifiche all'ultimo secondo, stili da conformare al volo a quello guascone il mio mondo è una vacanza perenne, e l'umanità intera è il mio personale team di animatori del Superdirigente Giapponese. Pure lui viene a chiedermi correzioni, prima del gran finale, ma parla un inglese che non conosco e così annuisco serio per proseguire poi immediatamente coi cazzi miei. I suoi lacchè sono interdetti, ma il mio atteggiamento impassibilmente stronzo pare sulla lunga distanza conquistare la loro fiducia: sono un tecnico serio, lo certifica la mia vistosa mancanza di cravatta, lasciatemi lavorare in un ambiente privo di facezie. Il giapponese è l'unico a distinguersi in quella folla di abiti grigio-bluette, e non solo in virtù della sua giapponesità doc: elargisce sorrisi ed ordini in quantità uguali, è un vincente di quelli veri.
A metà giornata, mio malgrado, mi è ormai chiaro lo scopo della ciclopica mobilitazione: la multinazionale immetterà sul mercato una nuova penna-siringa usa-e-getta d'insulina, a bassissimo dosaggio. I rappresentanti vengono istruiti: i medici devono iniziare a prescrivere le iniezioni anche a quei diabetici che, in effetti, non ne avrebbero ancora bisogno. È un bacino d'utenza enorme, viene più volte evidenziato. E la nuova penna è irresistibilmente superfriendly.

Un cenno, diapositiva, applausi.

Sotto il sol leone, con il casco in mano, ti vedo. Sei al cellulare. Tra noi, circa dieci metri di marciapiede deserto. Mi affretto per raggiungerti, vinto da un impulso la cui qualità mi risulta chiara quando realizzo d'aver avvolto il laccio del casco intorno al polso destro, strettissimo. Quasi corro, dunque, scoprendomi armato. Sono freddo, lucido, presente a me stesso: può essere un raptus, questo? Sto per urlare il tuo nome, poi mi blocco: il braccio e la spalla sono una catapulta, non c'è niente da dire. C'è della perfezione meccanica, qui, all'opera. E  una giustizia selvaggia ma precisissima, atletica, classica mi vien da dire: sono un giocatore di bowling cavalcato dal dio, e mi sento nudo, vero, senza colpa, pronto, posseduto da un'idea irresistibile.
Tutto intorno è vivido: la realtà mi guarda tesa, con gli occhi sgranati e il respiro mozzo.
Ti volti per attraversare. Non sei tu. Ti somiglia molto pure così, di profilo, ma non sei tu.

Rallento. Sono sfebbrato, paonazzo e dolorosamente consapevole della vanità delle mie intenzioni. Come un testicolo di quindicenne.