mercoledì 31 ottobre 2012

pane quotidiano.

Durante quell'ultimo colloquio in azienda, mi dissero che nessuno sapeva esattamente cosa facessi, poiché il mio diretto superiore non si curava di farlo sapere agli altri capoccia.
"Devi tenere la porta sempre aperta."
"Il riscaldamento non funziona: non posso costringere i miei colleghi a stare al freddo con la porta aperta."
"Fatti vedere, lo dico per te: vai a bussare alle altre porte e chiedi se c'è qualcosa per te. Non ti si vede mai: te ne stai rintanato e nessuno vede lo schermo del tuo computer. Chissà cosa fai, voglio dire."
"Sono al posto che mi è stato assegnato, e tutti i giorni collaboro con chi ha bisogno. Oltre a tutto il resto, naturalmente."
E avanti così. Il paternalismo è comunque umiliante, anche se testardamente provi a rifiutare il ruolo di pecora nera o figliol prodigo. Il messaggio era chiaro: non sei uno di noi, ed è esclusivamente colpa tua.

Il panettiere della piazza mi detesta. Non ne conosco il motivo, ma la cosa, per quanto assurda, mi risulta ogni giorno più evidente. Comunque, non importa. Quello che mi rode davvero, della faccenda, è la mia reazione, la mia posa involontaria: sono sicuro che un osservatore esterno, imparziale, giudicherebbe il mio atteggiamento tipico di chi ha qualcosa da nascondere. La classica coda di paglia. Forse il bonuomo pensa che sia stato io ad incidergli "suca" sul cofano dell'Alfa? Giudica la mia vespetta lilla e i miei modi riservati ma gentili troppo poco maschi per il tenore testosteronico del quartiere, e di conseguenza la mia presenza potenzialmente destabilizzante per la nipotina Rachele? Spiegargli che non posso comprare i suoi prodotti perché non consumo strutto acuirebbe il suo gerontobullismo?
L'irritante misera verità è che attraverso la piazza sempre circospetto, sempre a disagio, colpevole per ciò che so anche solo potenzialmente di poter pensare: porto a spasso una belva invisibile, è così che mi sento, porto a spasso una belva invisibile e certi sguardi indagatori mi risultano insopportabili.

Mi torna in mente un vicino di casa di quand'ero bambino: usciva poco e quando lo faceva camminava strisciando la schiena contro i palazzi, evitando gli sguardi, avanzando e indietreggiando a scatti imprevedibili manco fosse abitato e pilotato da un moscone ubriaco. Scheletrico, baffi e capelli neri untissimi, impermeabile tutto l'anno, puzzava di roba mal conservata in formaldeide. Dicevano che fosse finito così a furia di studiare, a forza di star chiuso in casa a preparar esami. "Non studiare troppo, ché fa male", mi diceva mia nonna. Non rimuginare. Immergiti nelle cose.
Attraversa la piazza a testa alta, perdio.

Alla settimana della moda ero tra quei pochissimi reclutati per giustificare col proprio lavoro sottopagato la presenza dei tanti strapagati per non far niente: un intero esercito agli ordini del Gran Stilista, gli sciamavano intorno per compiacerlo, coccolarlo e, alla fin fine, confonderlo per derubarlo delle briciole. Ogni tanto lui sbottava, urlava a quel suo plotone di checche petulanti "serve!! siete delle serve!!", e poi tutto tornava alla normalità: i tecnici fingevano di prendere ordini, inutili e discordanti, dalle decine di questi ricchi giovani parassiti assegnati al controllo artistico della fatica altrui, e il carrozzone del made in Italy avanzava esattamente come ciascuno sospetta che avanzi l'Italy tutto.
Io mi occupavo delle immagini che sarebbero state proiettate durante la sfilata: aggiungi una statua sul telo a destra, metti una texture sulla foto del cappello a sinistra, quel cielo lì sarebbe più bello con un po' più di blu, e via così. 
Un vecchio magrebino m'è stato addosso tutto il tempo. È uno degli assistenti personali del Gran Tizio, e s'occupava praticamente di tutto senza ovviamente saper fare un cazzo: in certi ambienti, nel cuore dolce del padroncino, l'esotico ruffianotto scodinzolante ha decisamente spodestato l'insulso chihuahua. Dal comportamento degli altri tecnici, capisco che risultargli simpatico è requisito fondamentale per portare a casa la pagnotta.
Fatico sul serio a mantenermi perlomeno cortese: lui è davvero invadente, mi racconta d'avere una vera passione per la grafica, accenna in continuazione all'importanza d'esser notati dalla gente che conta. Non mi molla un attimo. Il Maestro l'ha preso sotto la sua ala protettrice molti anni addietro, mi confida complice. Annuisco, sorrido, evito di fargli notare che quando si è ospiti ad un generoso banchetto ciò che a prima vista può sembrare un'ala protettrice è spesso, invece, il boccone del prete.
Mi si piazza vicino vicino. Nei momenti di massimo stress mi mostra delle schifezze sul suo costosissimo notebook dicendo "dovresti farlo così, ma meglio: io ho fatto veloce." Come se io avessi tempo, come se lui non avesse tutto il tempo del mondo.
Io mi destreggio, mantengo il mio consueto basso profilo, lavoro al meglio delle mie possibilità.
Al solito, non faccio amicizia con nessuno.
Per darmi un contegno, ignoro pure i vips. Non disturbo mai il Gran Tizio Stilista. Faccio ciò che devo.
Odoro di fuori luogo, e temo che qualcuno fiuti l'inconfondibile tanfo d'infiltrato: vivo come una colpa il fatto di non desiderare in fondo nient'altro che arrivare illeso a fine giornata.
Fatemi fare, fatemi andare: non sono timido, sono serio e sono a disagio ai vostri buffet di sfizioso chiacchiericcio, di ricco piluccare milanese. Ho lo stomaco modesto, ma la mia è fame vera. E so di non saperlo nascondere.
Tutto crolla il secondo giorno.
Il lacchè magrebino piomba sbraitando che qualcuno gli ha sottratto dal camerino il suo preziosissimo mac nuovo. È un farinelli in pieno attacco epilettico: scomposto, schiuma e sbraccia a casaccio urlando frequenze ben chiare solo ai cani del vicinato.
Inevitabilmente, sento montare il consueto senso di colpa: prima o poi, uno sguardo inquisitore si poserà sulla mia evidente e inopportuna coda di paglia in erezione.
E infatti.
I suoi, i loro sospetti sono in qualche modo fondati, lo so.
Sono colpevole, è evidente. Lo ero ben prima che succedesse qualcosa. 
E resterò colpevole pure quando poco dopo il vecchio leccaculo ritroverà il suo giocattolo, abbandonato con stronzissima noncuranza sul tettuccio della sua stronzissima mini cooper.

È la piazza, adesso, a urlarmi il destino di questo mio disonorevole sfigatissimo disagio: sei fatto così, e tanto vale. Ruba il laptop, rubalo davvero e non scappare, mostralo a tutti alzandolo al cielo e liberati, liberati dagli sguardi e dai sospetti confermandoli, limonati il panettiere fascio e fallo con autentica devastatrice passione, mostrati colpevole, sbagliato e affamato, e poi immergiti con leggerezza tra i tuoi pari, a scomparire.





giovedì 18 ottobre 2012

in vino.

Quando si sparse la notizia del mio licenziamento, un giovane collega ricciolino elegantino commentò platealmente in sala mensa, ovviamente in mia assenza, che lavorare con me "in effetti è difficile" perché sembro sempre parecchio infastidito. Come se questo spiegasse e, soprattutto, giustificasse. Con lui avevo in effetti lavorato in diverse occasioni, e molte volte avrei pure giurato che ci fossimo divertiti. Almeno un po', per quanto possibile.
Appena saputo, mi venne l'impulso d'irrompere nel suo ufficetto per urlargli in faccia che satana in persona aveva il suo nome tatuato sulla punta dell'uccello, ma poi lasciai perdere. È che siamo fatti così: sempre lieti, sollevati d'essere accolti nella comoda struttura che incentiva cinismo e vigliaccheria. 
C'è un'enorme complessità, a disposizione, in cui nascondersi e lasciarsi andare. Dici "io non sono così: fingo, gioco", e così ti ripari dove puoi conservare una sorta di lercia verginità, mentre sogni la promozione convincendoti che in fondo si tratta solo d'orchestrare e dirigere, e tu saresti proprio un buon regista lucido e capace. Oppure pensi "son soldi, è una cosa temporanea e la faccio solo per soldi" e così ti nascondi ad osservarci da dove noi tutti sembriamo minuscoli, distanti e mossi da bisogni minimi e soddisfazioni incomprensibili. Oppure "me lo merito, sono bravo e tutti devono esser conquistati dalle mie innegabili capacità", e così aderisci all'andazzo da un piano in cui deliri di poterlo dominare o perlomeno manipolare. La mentalità aziendale è un dolce mostro millefoglie che ci accoglie e schiaccia tutti nella sua cremina nauseabonda, qualsiasi sia la nostra personale illusione motivante: per rendere appetitoso l'ignobile è sufficiente strutturarlo, gettarlo nella complessità.
Se c'è un momento in cui è possibile dire basta, è quel momento che si ripresenta quotidianamente all'infinito e conduce non alla disfatta, ma ad una completa rovina da accogliere finalmente con meritatissimo sollievo.
Intuisco, intravedo forse per la prima volta queste banalità destabilizzanti - per il mio ai tempi ancor giovine e scattante cervelletto - contemplando l'automobile distrutta, al bordo d'una statale lombarda.

Era il periodo in cui allentavo la tensione per la stesura della tesi lavorando per una neonata pretenziosa casa vinicola. Un vino prelibato quanto invendibile, poiché costoso ma sconosciuto: l'azienda, fondata pochi anni prima per hobby da una combriccola d'amici danarosi, aveva concesso carta bianca ad un celebre enologo, che s'era così potuto togliere lo sfizio di progettare i vigneti e tutto il processo produttivo in prospettiva del massimo risultato e con la massima noncuranza per l'altrui pecunia.
Non riuscivo a vendere quell'arrogante brodaglia praticamente a nessuno, e la paga era ovviamente solo a provvigione. Ma andava bene così: volevo star solo, un po' per riflettere e un po' per evitare di farlo.
Ricordo che alle fiere, col consueto sprezzante disinteresse verso cliente e venditore, i tizi risparmiavano su calici e rispettivo assaggio: ero l'unico a proporre degustazioni nei bicchierini di plastica da caffè. In quelle situazioni, rifilare i conformi aggettivi aziendali tipo "prestigioso" e "nobile" diventava arduo e involontariamente comico, almeno quanto riuscire subito dopo ad apparire candido e convincente rivelando l'osceno prezzo del nettare.
Per consegnare poche casse, dovevo percorrere centinaia di chilometri tra un cliente e l'altro. Una roba demenziale, dispendiosa, faticosa. Una giornata la passavo a cercar contatti, attaccato al telefono rinchiuso in solitudine nell'ufficetto gelido della cascina nuovissima e disabitata, e il giorno dopo, all'alba, caricavo la macchina e partivo.
Per un po',  godetti della compagnia di un topino di campagna: s'era infilato nottetempo dentro la lussuosa Fiat Marengo in dotazione, e aveva deciso di restare lì pure lui a dare il suo contributo nell'azienda. Evidentemente, aveva necessità simili alle mie. Mentre guidavo, ogni tanto faceva capoccella sul cruscotto, per poi scomparire di nuovo: per lo spavento, alla sua prima apparizione, a momenti non tirai giù la veranda d'una trattoria per camionisti. Poi, mi abituai.

Avevo appena consegnato una damigiana ad un folle e logorroico brianzolo appassionato di modellismo, ero a fine giornata e stavo tornando verso casa: nel retro, solo poche casse d'invenduto e un'altra damigiana da portare poco distante.
Fermo ad una piccola rotonda, vidi il tir a cui avevo coscienziosamente ceduto la precedenza prendere la curva con eccessivo brio. La testa del mostro mi sfilò davanti tutta inclinata verso il mio faccione stanco, come a farmi un buh! ubriaco, e manco il tempo d'elaborare una qualsiasi vaga reazione - anche solo di panico - che il retro sballonzolante mi colpì, agganciando il muso del mio Marengo bianco per trascinarmi via con sé.
Cercai di riprendere il controllo del mezzo, ma le ruote posteriori vagavano nel fossato oltre la strada: mi trovavo in un'imbecille vertiginosa versione adulta di quando, da bimbo, un ragazzo più grande ti stringe il cranio con un braccio, e poi s'incammina tenendoselo tra petto e ascella e sfregandoti vigorosamente le nocche sul cuoio capelluto.
Dopo poche decine di metri, per fortuna, il bestione s'accorse di me e si fermò.
Ne scese un marocchino minuto, ben più spaventato di me (non che io sia coraggioso o sconsiderato, capiamoci: sono lento, e sensazioni e reazioni m'arrivano decisamente in ritardo. Da qualche parte, devo avere un filtro otturato).
Il ragazzotto era agitatissimo: s'informò sulla mia salute, si scusò e riscusò, mi pregò di risolvere la cosa tra noi perché non era in regola e chiamare i carabinieri sarebbe stato davverodavverodavvero un guaio.
Gli dissi che pur'io temevo di non essere propriamente in regola e, nella confusione, con la testa che prese a girarmi e la nausea che iniziava a salirmi in gola, telefonai al mio capo.
"Senti, ho fatto un incidente: un camion m'ha agganciato e..."
"No! Ma dove sei?!"
"Boh. In statale vicino a..."
"Ma il vino?"
"Non so: sento l'odore, qualcosa dev'essersi rotto ma non ho ancora..."
"Merda! E la macchina?! Ma l'altro? S'è fermato?!"
Nel panico, insomma, lo stronzo si dimentica di fingere che di me gli fotta almeno quel qualcosina di civile ordinanza: nell'emergenza, si dimentica pure le regole basilari del giochino di società cui lui può permettersi di partecipare per noia.
Guardai il giovane smilzo aggirarsi sudato e gesticolante tra i danni, tutto assorbito dalla sua personale paranoia per un futuro decente in bruschissimo arresto e, una volta tanto, la mia reazione arrivò in tempi ragionevoli: "No, non s'è fermato, la merda. Ha tirato dritto e non sono neppure riuscito a veder la targa. Forse, non s'è manco accorto di niente."

Il giorno dopo mi licenziai.
Con l'autista del camion ci salutammo stringendoci la mano. Entrambi sollevati, entrambi ignari della sorte del topino aziendale, al quale ancora non avevo neppure affibbiato un nome.



giovedì 13 settembre 2012

quindicenne.

“Ti vedo, che mi guardi con odio”, m’hai detto quella volta là, nel tuo ufficio, dandomi l’ennesima prova della tua limitatissima conoscenza delle varietà e potenzialità dei sentimenti umani.

Un cenno, diapositiva, applausi.

Mia madre che torna a casa, dopo l’incontro coi professori. Mi dice che la tizia le ha fatto vedere le prove di alcuni miei dotatissimi compagni, e poi la mia. Quella là mi disprezza, perché non rido alle sue battute e non assecondo le balle che racconta: tutte storie della sua scapigliata gigantezza artistica, più che altro. Una volta m’ha pure tenuto un pomeriggio intero chiuso in uno sgabuzzino, a disegnare al buio. Dispiaciuta e un po’ imbarazzata, mia madre mi racconta che, effettivamente, alcune rose erano bellissime, e le mie, invece, decisamente rigide, opache, spente, bruttine. “Sembravano proprio di plastica”, mi dice. Sorridendo, già pregustando la portata mitica dell’aneddoto, tutto tronfio come un novello Giotto, le dico “le rose da copiare erano proprio di plastica, mamma, mica vere. Usiamo rose di plastica”.
Adesso so che, di allora, non è quella supposta precoce lucidità dello sguardo, che avrei dovuto conservare e coltivare. E neppure quella sbarazzina precisione nella rappresentazione che tanto m’inorgogliva.
È al mestiere, che avrei dovuto pensare. Solo al mestiere. Tenersi strette quel po’ di capacità per un fine preciso, ristretto.
L’arte è roba per mangiamerda.
Ed è come l’odio: a un certo punto non te lo puoi più permettere, e quando sparisce non lascia niente al suo posto.

Ricordo che, anni fa, venni strapagato per gestire le proiezioni powerpoint ad una ipermegaconvention milanese organizzata da una multinazionale farmaceutica.
Centinaia di medici e rappresentanti ad ascoltare, decine di relatori. Ad un cenno, cambiavo diapositiva: mai fare da soli, bene, ciò che può fare per noi, male, un apposito schiavetto.
Modifiche all'ultimo secondo, stili da conformare al volo a quello guascone il mio mondo è una vacanza perenne, e l'umanità intera è il mio personale team di animatori del Superdirigente Giapponese. Pure lui viene a chiedermi correzioni, prima del gran finale, ma parla un inglese che non conosco e così annuisco serio per proseguire poi immediatamente coi cazzi miei. I suoi lacchè sono interdetti, ma il mio atteggiamento impassibilmente stronzo pare sulla lunga distanza conquistare la loro fiducia: sono un tecnico serio, lo certifica la mia vistosa mancanza di cravatta, lasciatemi lavorare in un ambiente privo di facezie. Il giapponese è l'unico a distinguersi in quella folla di abiti grigio-bluette, e non solo in virtù della sua giapponesità doc: elargisce sorrisi ed ordini in quantità uguali, è un vincente di quelli veri.
A metà giornata, mio malgrado, mi è ormai chiaro lo scopo della ciclopica mobilitazione: la multinazionale immetterà sul mercato una nuova penna-siringa usa-e-getta d'insulina, a bassissimo dosaggio. I rappresentanti vengono istruiti: i medici devono iniziare a prescrivere le iniezioni anche a quei diabetici che, in effetti, non ne avrebbero ancora bisogno. È un bacino d'utenza enorme, viene più volte evidenziato. E la nuova penna è irresistibilmente superfriendly.

Un cenno, diapositiva, applausi.

Sotto il sol leone, con il casco in mano, ti vedo. Sei al cellulare. Tra noi, circa dieci metri di marciapiede deserto. Mi affretto per raggiungerti, vinto da un impulso la cui qualità mi risulta chiara quando realizzo d'aver avvolto il laccio del casco intorno al polso destro, strettissimo. Quasi corro, dunque, scoprendomi armato. Sono freddo, lucido, presente a me stesso: può essere un raptus, questo? Sto per urlare il tuo nome, poi mi blocco: il braccio e la spalla sono una catapulta, non c'è niente da dire. C'è della perfezione meccanica, qui, all'opera. E  una giustizia selvaggia ma precisissima, atletica, classica mi vien da dire: sono un giocatore di bowling cavalcato dal dio, e mi sento nudo, vero, senza colpa, pronto, posseduto da un'idea irresistibile.
Tutto intorno è vivido: la realtà mi guarda tesa, con gli occhi sgranati e il respiro mozzo.
Ti volti per attraversare. Non sei tu. Ti somiglia molto pure così, di profilo, ma non sei tu.

Rallento. Sono sfebbrato, paonazzo e dolorosamente consapevole della vanità delle mie intenzioni. Come un testicolo di quindicenne.

lunedì 20 agosto 2012

short.

Qui si soffoca, e sono in camicia. E mi sento pure parecchio a disagio, per via della camicia. Penso "son qui per un lavoro di merda, e ho messo la camicia. Non ce l'avrà nessuno, la camicia".
Sono in anticipo, e così, verificata la correttezza del numero civico, mi aggiro mollemente alla ricerca d'un caffè. Devo muovermi lentamente, altrimenti chiazzerò il cotone di sudore. C'è gente che ci abita, qui, e non ci avevo mai fatto caso: costruzioni identiche al centro commerciale che le abbraccia sono adibite a variopinte celle abitative, del tutto indistinguibili dagli uffici tutt'intorno se non fosse per le tracce d'umanità disordinata sui minuscoli balconi. Ovunque, l'aria asettica ma decadente della grande svendita.  Un caffè nel bar vuoto, mi serve il figlio svogliato, smilzo e biondiccio della proprietaria impegnata con la contabilità, e poi m'incammino verso il portone. Sono le due, l'afa pare il desiderio e lo sforzo della Terra d'esser un altro pianeta. Ci sono le scale esterne, e persone che fumano. Nessuno ha la camicia. Una donna e una ragazzetta, entrambe sudamericane, scendono sorridenti dal terzo piano per raggiungere i fumatori: le loro cosce sono sfrontatamente immuni al sudore, così mi volto in fretta per evitare d'andar dietro al pensiero dell'inadeguatezza della mia carne all'estate. 
Al secondo piano della vicina palazzina, appeso al muro esterno accanto alla porta finestra del terrazzino, qualcuno ha appeso un quadro. Una tela, un paesaggio ad olio. Scogli, una costa verde rigogliosa, un cielo d'un blu ben più intenso del mare sottostante. Perché è lì? Immagino l'inquilino in mutande e canotta, in piedi, con la schiena rivolta a me come a tutto ciò che circonda la sua casa, impegnato a fissare quell'evocativa crosta marittima: respira lentamente, a pieni polmoni, tutto preso dalla ricerca d'immaginarie particelle di salsedine. Mi accorgo che è esattamente quello che sto facendo io, ora, inondandomi però le viscere di pulviscolo incandescente.
Il cellulare mi dice ch'è giunta l'ora, e m'incammino all'interno.
Dall'ascensore sbucano altre tre sudamericane, ridanciane. Al piano, la porta col logo giusto è aperta. Una stanza di trenta metri quadri massimo, una ventina di postazioni coi relativi operatori. Un nerd ciccione di circa vent'anni, e poi solo donne. Quasi tutte sudamericane, non saprei dire esattamente di dove: una la vedo di spalle, polposa tutta attillata in short zeppe e calze a rete, testa corvina gigantesca, un po' ovunque su di lei una generale mollezza fa capolino a suggerire l'età di chi dovrebbe esser prossimo alla pensione. Odore di palestra. Mi viene incontro una ragazzina, anche lei in short e canotta: sembra a malapena maggiorenne, mora, ricciola, i brufoli seccati dall'abbronzatura del fine settimana. Mi dice di aspettare lì per il colloquio, e poi si allontana.
Mi preparo all'incontro col suo boss, ma dopo un paio di minuti lei torna e mi fa accomodare ad una piccola scrivania al centro della stanza: sarà lei a farmi le domande di rito, e sospetto che sia proprio lei a dirigere l'intera baracca.
Io rispondo a bassa voce, m'imbarazza che tutti mi sentano. Ogni tanto, qualcuno che richiede il suo aiuto ci interrompe, lei si scusa, si alza, risolve e poi torna. Ha in tutto e per tutto l'aspetto di una che, al massimo, nella vita ha fatto per un paio d'estati l'animatrice nei villaggi turistici. Io invece sono uno strano tipo di vecchio, e ho pure questa cazzo di camicia.
"Ha già avuto esperienze di vendita?"
"Sì: ho fatto il rappresentante per un'azienda vinicola piuttosto prestigiosa"
"Posso chiederle come mai ha smesso, allora?"
"Mi sono messo a fare dell'altro"
"No, glielo chiedo perché qui cerchiamo anche dei commerciali, porta a porta. Hanno provvigioni migliori, ovviamente"
"Preferirei stare in ufficio."
Se voglio, lunedì prossimo potrò andare a frequentare una sua lezione, in cui spiegherà il lato tecnico del lavoro. Dopo qualche ora d'affiancamento, poi, sarò pronto ad iniziare il part-time.
"E per quanto riguarda la paga?"
"Allora: c'è un fisso di cinque euro all'ora, più la provvigione su ogni contratto. Per il fisso mensile, però, deve raggiungere la quota minima di quattro contratti al mese".
"Cioè, mi scusi: se non realizzo almeno quattro contratti, non ho lo stipendio?".
"Sì, beh: ma sono davvero il minimo, stia tranquillo. Abbiamo dovuto fare così perché la gente, prima, veniva qui solo per lo stipendio fisso"
"Pensa un po' te."
 Appeso alla parete davanti a me, c'è un grosso foglio con le risposte alle domande più frequenti, scritte col pennarellone blu: "sì, sul sito lei ha accesso alle stesse promozioni, ma non possono darle quello che invece le offriamo noi: un servizio personalizzato". Qui fuori, mi torna in mente, qualcuno ha appeso un paesaggio marino sul terrazzo: forse è un richiamo, come quei fischietti per attirare gli uccelli. Una mattina, il tizio in canotta aprirà la porta finestra e un'onda gli bagnerà i calzini.

Alcuni giorni prima, più o meno alla stessa ora, correvo a prendere un treno. Arrivato al semaforo, l'ultimo, quello che rimane rosso così tanto che ti viene il dubbio che qualcuno stia sfidando i viaggiatori ritardatari alla roulette russa dell'attraversamento scomposto con bagaglio variabile, mi accorgo della coppia in attesa alla mia destra. Padre e figlia, direi: lei sui dodici anni massimo, la bellezza buffa delle bimbe tutte serie, compite e curiose, lui oltre i cinquanta, quell'aria trasandata tipicamente genovese da pantaloncino corto, vinello bianco e cantautorato.
"Quello che voglio farti capire, è che non devi dare per scontato che tutto quello che vedi resterà così per sempre."
"È il progresso?"
"No, vedi: il progresso va avanti, avanti... abbiamo gli aerei, i treni sempre più veloci, avremo nuovi mezzi per muoverci e chissà cos'altro. Tutta la tecnologia per le guerre, gli elettrodomestici. Io ti sto parlando di quello che vedi guardandoti intorno, della gente per esempio. Può darsi che un giorno dovremo di nuovo lottare per mangiare, uccidere per un pezzo di pane."
Scatta il verde. Rimango alcuni istanti immobile, lasciandomi investire e sorpassare per un po' prima d'unirmi di nuovo al flusso di chi ha provvisoriamente una meta.








giovedì 12 luglio 2012

vita snella.

Alla cassa, uno dei dipendenti mi sfreccia accanto urlando "fermo!! aspetta un po', tu!!". L'uomo in giacca a vento rimane congelato davanti alle porte scorrevoli: sconfitto, in attesa che il giovane cassiere nerboruto si precipiti a bloccargli la fuga. Non riesco a sentire le giustificazioni appena sussurrate del distinto e appena un po' trasandato ladruncolo, ma pare evidente che non contasse affatto di passare inosservato (come potrebbe, così intabarrato? Fuori ci saranno trentacinque gradi, cazzo): il tizio del supermercato lo sovrasta e gli urla in faccia con convinzione crescente "non me ne frega un cazzo, se sei disoccupato: togliti tutto, o chiamo i carabinieri! Noi non siamo qui a lavorare per te: non mi commuovi neanche un po'", e avanti così.
La ragazza bionda e paffutella che mi sta servendo osserva la scena con la bocca leggermente aperta; la mano, già svuotata del mio resto, inutilmente tesa verso di me. Pare così perfettamente brancolante che le luci tutt'intorno andrebbero spente, penso.
Quand'ero poco più d'un bimbo, i miei amici ed io ridemmo per mesi alla notizia che il locale campioncino di culturismo - un gigante munito d'un ligneo parrucchino che, persino più dei quotidiani bilancieri, gli rendeva ardui i movimenti nella piscina comunale dove pure noi sguazzavamo teppistelli - era stato pizzicato a rubare al supermercato svariate confezioni di vitasnella.
Tra questi due eventi momentaneamente compresenti, sento un'enormità la cui natura mi sfugge. Forse, è il tempo. O l'età.
Il giovane impiegato è più vicino a com'ero allora, ma dalla sua faccia tesa e dalla sua indignazione d'ordinanza traspare un dolore che non riconosco.
Per quel che ne sappiamo tutti, ora, potrebbe pure beccarsi una coltellata.
Nessuno fiata: è lo stesso spirito con cui la gente rallenta in autostrada per sbirciare gli incidenti, oppure sono tutti paralizzati dalla difficoltà di stabilire da che parte stia davvero il torto?
Saluto, attraverso col mio sacchetto biodegradabile lo spazio elettrico tra guardia e ladro, m'incammino verso casa.

Il lavoro presuppone che si accettino come assoluti i rapporti che contiene, è una bolla in cui tutti i pesci accettano di fingere che non esista uno spazio esterno. Così, come il cassiere non valuta, ora, un mondo là fuori dove un affamato lo aspetta nel vicolo buio brandendo vendicativo un grosso bastone, per il manager non esiste un luogo in cui i rapporti di forza sono regolati diversamente dall'innaturale stilizzato minuetto dell'ufficio. Eppure, da qualche parte, quel rimosso sopravvive, e andrebbe stimolato con maligna costanza.

La mattina dopo il grande terremoto, mi raggiunse alla macchina del caffè per dirmi di tenermi pronto: c'erano grosse oppurtunità di guadagno in arrivo. L'entusiasmo aziendale strideva con la sua faccia ottusa; negli occhi, l'unico segno di vita una lucina lontana, come di bambino che sta per metter le mani s'un giochino zozzo. Non mi conosceva ancora: iniziò lì, in quel momento. Non trovai parole. Ho avuto un'educazione bella, e son dunque sempre lento, impreparato all'orrore. E, quasi sempre, trasparente.
Quello che avrei dovuto dirgli, avendo cura di duplicare con voce secca e monotona la terrificante cerulea idiozia della sua faccia, era semplicemente "so dove abiti". Rompere la bolla. Incrinarla, almeno.

E lo so davvero, dove abiti, coglione. Lo so da quella lontana estate in cui alla guida del pandino vagavo per le tue valli cercando di consegnare la posta. Campi e boschi a dividere paesi composti a volte di due sole case: è da lì che vieni, da quelle minuscole oasi di megalomania seminate nel verde selvaggio e indifferente. Vagavo fino a sera inoltrata in preda alla disperazione, con la macchina ancora piena di lettere e pacchi e mai nessuna idea di dove svoltare: nessuna mappa, grossi sbavanti cani da guardia ben lieti di trovare una cazzo di preda in quel deserto, nidi di vespe nelle cassette della posta, vecchi semianalfabeti chiusi nei casolari ancora non bonificati dagli arricchiti come te.
Ricordo un guado, la Panda ferma, la seria contemplazione della possibilità di lanciarmi giù col piede ben pigiato sull'acceleratore. Per non dover tornare un'altra volta in ufficio con tutta quella robaccia da sommare alla robaccia del giorno dopo. Forse, pure per farla finita una volta per tutte con la fatica, con l'afa, la polvere, coi pranzi a base di crackers sbranati guidando, con quel futuro approssimativo che mi correva incontro.
Ero giovane.
Quando andai dal capo per licenziarmi, lamentando il fatto che niente e nessuno faceva in modo di rendere i miei compiti meno che impossibili, la ricurva, segaligna e solitamente muta addetta alle pulizie interruppe l'operazione di strofinamento per voltarsi verso di noi: "ha ragione!" disse quasi urlando, evidentemente dando fondo in quell'attimo a tutte le sue riserve di coraggio, "quel lavoro lì l'ho fatto pur'io, e ora sono ben contenta di pulire i cessi!!"

Anni dopo, eri a Londra per lavoro. Nella mail, mi chiedevi di ricavare da una fotografia allegata l'immagine del tuo certificato di laurea, facendo poi in modo che sembrasse il documento vero, originale. Nella foto, eri in giardino, in ciabatte da piscina e calzoncini corti. Nella tua semplicità, brutto e sfigato come sa essere solo chi si mette la cravatta pure per andare a buttare la spazzatura. Tutto tronfio, reggevi il papiro incorniciato d'oro.
Questa casa l'ho già vista, pensai.


lunedì 25 giugno 2012

il feroce salatino.

Anni fa, andai a Roma con un amico. Insieme, avevamo ideato e scritto un format televisivo: sostanzialmente, una sit-com con all'interno vere interviste a personaggi famosi che affrontano scottanti temi esistenziali, il tutto garrulamente ambientato in un obitorio.  Una casa di produzione si mostrò interessata: restammo ospiti da loro un po' di giorni, per apportare alcuni aggiustamenti che loro ritenevano indispensabili per riuscire a vendere il bizzarro prodotto. Il boss era una radicalricca vecchia femminista: ricordo chiaramente che in casa aveva il telecomando della tivvù a forma di cazzo.
Il cambiamento fondamentale, imprescindibile a detta della tizia e della giovane sceneggiatrice lesbica chiamata ad incanalare e dirigere la nostra creatività, era "l'inserimento di un'infermiera maggiorata". Senza quel personaggio prosperoso, discinto, più bagascesco che boccaccesco, potevamo scordarci d'ottenere un contratto. Senza un po' di figa, c'insegnarono serieserie quelle due suffragette da anni zero, non si va da nessuna parte.
Ci son ruoli da rispettare, perché ci son bisogni da appagare: per ogni stronzo pronto a spiegarmelo, ci son io lì apposta a farmelo spiegare. 

Quella strada la faccio almeno due volte al giorno, in vespetta. Fermo al rosso, un agitarsi anomalo al limite destro del campo visivo mi costringe allo scatto, manco fossi in pericolo. La scritta "tutta un'altra banca" sovrasta la vetrina che esibisce tutta quanta la minuscola filiale. L'ufficio è stracolmo. Impiegati pigiati l'uno contro l'altro s'ingozzano di tartine, bevono, qualcuno indossa il cappellino conico di festosa ordinanza, scorgo due, tre braccia alzate che immortalano a casaccio dall'alto con lussuose digitalone la minifolla gaudente. Non si sente alcun vociare, solo un ovattatissimo tunza-tunza. Eppure, gli impiegati incravattati mostrano bocche urlanti, e vedo chiaramente colleghe sottolineare risate di circostanza gettando leggermente indietro la testa. Qualcuno ha persino la camicia rosa.
Immagino varianti, a raffica: entro e inizio a mitragliare, la vetrina spalmata di sangue tartine frattaglie; entro e vomito a spruzzo scatenando complessivo degenero intestinale, sempre il vetro spalmato però di bile pan carrè patè parzialmente digerito; entro con una banda di barboni nudi in preda a folle priapismo, di nuovo il vetro su cui si spalmano mani e volti stropicciati dagli spasmi per la lercia sommaria giustizia sodomita; entro con una pompa da vigile del fuoco dopo aver sigillato ermeticamente il locale, la vetrina trasformata in acquario in cui boccheggiano disperati impiegati moribondi... 
Mentre sto ancora visualizzando cartoonesco sadismo, divento conscio della pochezza delle mie fantasie, automatiche, superficiali, finte: ho indossato in un attimo, senza esitare, quel ruolo di comparsa tapina, di spettatore rancoroso che la ritualità della situazione ha predisposto per me. Alcune cose sono perfette così come sono, contengono in sé la propria parodia. Bisogna stare attenti, fare l'esercizio d'osservarle senza partecipazione.

Mollo la frizione e riparto, in mente l'ultima cena natalizia aziendale alla quale ho presenziato. I colleghi che godono del buffet, vini e liquori per lubrificare danze e troieggiamenti, i grandi capi che cenano in disparte, serviti al tavolo, e poi si lasciano accompagnare in giro per le sale come allo zoo, affinché possano assistere al divertimento dei dipendenti, gente semplice semplice da soddisfare. Ognuno col proprio ruolo, nel rito che ha la funzione di render vero esattamente quel ruolo. Nient'altro da aggiungere a questa specie di tautologia in atto, nessuna fantasia con cui rivestirla, deriderla, spiegarla, esorcizzarla: non son più tempi da fantozzi, questi. Ridicolo e ferocia sono il pane spezzato per tutti, siam gente cresciuta a messa e accettiamo finalmente il nostro posto nel mondo.
Non se ne esce, penso serpeggiando nervosamente nel traffico, non se ne esce.
Avremo sempre bisogno di mammà che ci dica "siediti qui, aspetta qui, rimani qui": al massimo, forse, i riti si possono rimpiazzare con altri riti. Impossibile liberarsene.
Sospetto che galleggiare nel vuoto non piaccia neppure agli astronauti.

Ci vorrebbero nuove, sorprendenti, variopinte, assurde, sbrilluccicanti ghigliottine in piazza.

lunedì 18 giugno 2012

insaccato.

All'università dove i padroni parcheggiano i figli in attesa di farli spadroneggiare per il mondo, un ragazzone superfichissimo mi offrì cinquanta euro per fare al posto suo il compito che avevo assegnato, in aula, appena mezz'ora prima. Stavamo salendo, sulle scale mobili, e lui era dietro di me. Rimasi un po' a fissarlo. Entrambi impassibili. No, non stava scherzando. Mi chiesi come dovevo apparire ai suoi occhi, come m'avesse valutato prima d'azzardare la proposta, quali fossero i suoi criteri.
"No. Non si può. E comunque cinquanta euro sono pochi."

Nonostante questo percorso sia chiaramente un processo, nonostante quest'obbligato inarrestabile divenire, per chi mi circonda rimarrò comunque quell'immutabile fotografia d'un coglione scattata chissà dove e quando a mia insaputa.
In questa città vivono i miei parenti ricchi. Ad alcuni di loro, con moderazione e parsimonia, voglio persino bene.
Mai mi hanno offerto un pranzo o un caffè nei miei giorni disoccupati, mai hanno cercato la mia compagnia. Quando ingoiando pure l'ultimo residuo d'orgoglio mi sono deciso a chieder loro aiuto, hanno preso tempo per potermi ignorare con calma. Ecco, questo è doloroso: vedere che non c'è niente di romantico neppure nell'essere poco raccomandabile.
Son queste cose che tritano sul serio le ossa, così come è la rabbia, poi, a tener insieme ciò che resta. Come un würstel, uscirò da questa macchina masticatrice complessivamente più insaccato che incazzato, ne uscirò cioè non davvero indigesto come vorrei, ma ben preparato per il prossimo definitivo sbrano, ghiottoneria ingegneristicamente progettata per palati ignoranti.

Un noto quotidiano, tempo fa, mi offrì un lavoro: per le pagine locali, avrei dovuto cercare e scrivere notizie ambientate nel quartiere in cui vivevo. Il tizio, in redazione, specificò poi che tali notizie non avrebbero dovuto essere "per forza vere", ma che l'importante era raccontare storie, preferibilmente di cronaca nera o rosa, dal "sapore folcloristico".
"Ti paghiamo dieci euro al pezzo: alcuni nostri collaboratori riescono a pubblicarne anche dieci al mese". Nessuno m'avrebbe mai chiesto di documentare la veridicità dei pezzi, potevo star tranquillo.
Rifiutai. Intendiamoci: rifiutai per la miseria del compenso, mica per altro.
Ho fatto pur'io la mia bella parte per rendere il mondo un posto peggiore, davvero. 
È il candore di questa gente, che non cessa di sfinirmi. Persino il cinismo è diventato roba da perdenti, e aver dimostrato per gentilezza un briciolo d'insincero interesse per il lato fiabesco dell'incarico mi fece sicuramente apparire, agli occhi di quell'impiegato dell'informazione, uno strano tipo di coglione.

È folclore. Non sta succedendo davvero, sta succedendo nel mio quartiere, sta succedendo adesso.
Sono un tipo poco raccomandabile.
 





martedì 5 giugno 2012

scacco a Windom.

Finalmente riesco a leggerlo, in trasparenza. Cazzo, assomiglia davvero a Windom Earle, e tutto vibrante d'elettricità che gli strabuzza gli occhi s'alza, racconta, gesticola, mi scruta indagatore, annusa le mie risposte sempre paracule, mi racconta con piglio drammatico di quell'inquilino maledetto che non gli ha mai ma proprio mai pagato l'affitto: gli aveva detto d'essere un carabiniere, e invece serviva alla mensa della caserma e aveva falsificato ad arte tutti i documenti per abbindolarlo ben bene. Davvero non colgo il punto, ma annuisco complice facendo automaticamente miei i segni della sua indignazione. 
Quando mi dice che dei miei ex colleghi genovesi, tra tutti, conosce proprio quel nano là vincente sudaticcio profumatissimo e platealmente cocainomane, il quadro è compiuto e realizzo che posso farcela.
Posso farcela.
"Cioè, capirai, non per farmi gli affari tuoi, ma le garanzie... senza una busta paga..."
Sorrido appena, inspiro, attacco a parlare con quel mix di pazienza paterna e arroganza furbetta che costringe, in genere, la gente come lui a darti ragione piuttosto che correre il rischio - inaffrontabile per chi nella vita mai è stato sfiorato da punkitudine alcuna - di passare da coglione: "beh, guarda, a dirti il vero è proprio il lavoro fisso a costituire un'anomalia nel mio campo... solitamente, lavoro in giro per l'Italia, alla settimana della moda ad esempio... fondamentalmente tutte collaborazioni così, freelance..." e avanti a sommergerlo di fumose fumanti stronzate. Dopo, ovviamente, mi sentirò addosso tutto quello sporco dell'umanità che detesto, insieme all'inevitabile esaltazione del baro vittorioso, quel miscuglio postmasturbatorio di colpevolezza e soddisfazione che sempre m'assale quando m'accorgo che sì, potrei davvero essere come te, potrei pur'io simulare una vita intera
Garanzie?!? Possibile che l'unico azzardo spetti sempre e solo a voi, voi che comunque mai potreste perdere? In che mondo vive, questa gente che non fa che chiedere e addirittura esigere garanzie? Nel mio mondo, l'avvocato re del karaoke che vive nell'appartamento sopra il mio, vedendomi riparare il sellino della vespa col nastro adesivo mi chiede, tutto pimpante per dissimulare l'imbarazzo, "ma se poi vuoi buttarlo via regalamelo, eh, che sul mio ora, prima di salire, io metto un giornale così non mi bagno il culo con l'acqua che viene da dentro". Perché l'evidenza è che pure la rispettabilità è un azzardo, una finzione precaria.
E quindi son qui a dirgli 'ste cazzate pensando invece chissà perché che forse dovrei raccontargli di quell'estate, da ragazzetto, in cui ho fatto il muratore per quel tizio che tutti chiamavano Gesùccristo, un uomo smilzo e possente che la mattina m'offriva focaccia buonissima ancora fumante e che ogni giorno m'inorgogliva con il suo stupore per la mia forza comunque sorprendente, nel mio piccolo, ignorando il dolore dei miei muscoli quando la sera rimanevo per ore a galleggiare nella vasca bollente prima d'andare a letto felice, felice e soddisfatto nell'illusione di sentirmi un po' uomo e un po' utile. Ma queste son cose da non dire a nessuno, mai, perché quello star bene infantile e dunque lecitamente, genuinamente consolatorio risulta insopportabile a noi borghesi, è qualcosa da nascondere con l'alibi del rispetto, questo sì falso e borghese, per il santissimo proletariato sgobbone. Son mondi che davvero non si possono mischiare, questi, manco nei discorsi da bar, e così come quest'uomo che ho davanti mai mi considererà suo pari concedendomi il sospetto dell'azzardo (e per questo io lo fotterò, da suo pari), così nessuno mai più come Gesùccristo mi chiamerà compagno senza ironia.
E allora adesso io mi permetto un sorriso finalmente sincero, di cui tu ignorerai per sempre l'origine e il perché: qui, ora, io sono il disoccupato con la casa nuova e bellissima, il perdente che prevale, il re del foro che trionfa con le chiappe bagnate, un autentico tristo eroe dei due mondi, insomma, come quest'italietta infame impone.
Ma non son cose da raccontarsi in giro, queste.


mercoledì 23 maggio 2012

riposo, soldato!

Quando gli dico che ho lavorato pure in università, come assistente al corso di scrittura creativa, mi dà una maschia pacca sulla spalla: "hai appena guadagnato dieci punti: io ho pubblicato già due libri, è la mia vera passione".
Dieci punti.
Ancora la sento, quella pacca. Come quando un piccione ti caca in testa, e continui a strofinarti senza sentirti mai veramente pulito.
E sì che nel complesso è anche amichevole, il tizio. Con serietà sorniona, è tutto un ribadire il suo privilegio avvicinandosi e allontanandosi da me con consumata sapienza: il lavoro è qualcosa da concedere con virtù e benevolenza e lui fa parte di questa nuovissima provvisoria casta di marchesi del grillo capaci di sorridere paterni mentre ti gettano dalla finestra la moneta arroventata.
Mi fa sentire ragazzo, alla visita per il servizio di leva: "ah! sei pure un artista, sei!" m'ha sfottuto il vecchio graduatissimo, per poi girarsi verso il suo sghignazzante lacchè come a schiaffeggiarlo "zitto!! che ne sai! e tu diglielo, che mica tutti possono essere artisti!!".
Ho male alla spalla: questa pacca è guano pesante come un macigno, per me che ormai son così semplice che sento l'anima spalmata sulla pelle.
Trattasi di colloquio per un posto di commesso e, ovviamente, per accedervi ho avuto bisogno di una raccomandazione. Dopo un paio di giorni, sarei venuto a sapere che il nuovo assunto è un docente quarantatreenne con tre figli, rimasto improvvisamente senza lavoro: sono una barzelletta ambulante, così sfigato da arrivar secondo pure in una gara di sfigati.
"Non bisogna assumere persone capaci: bisogna assumere persone disperate, perché possiamo fargli fare quello che vogliamo" ha detto candido durante una riunione uno dei miei ex capi, quello intoccabile con lo zio svizzero che gestisce i fondi neri dell'azienda. 
Quand'ero qui nella Superba ancora da poco, grazie a un'altra raccomandazione, riuscii perfino a ottenere un colloquio per lavorare in una piccola libreria "va bene: vieni qui qualche mese gratis, guardi come si fa, e poi vediamo come e se assumerti". Oggi, sicuramente accetterei.
Ancora un mese, e sarò senza sussidio. Ancora un mese, e scenderò un altro gradino.
La mia, è la stanchezza dei pionieri di second'ordine, della marmaglia di scorta agli esploratori, è l'esausto testardo trascinarsi di chi paga per l'azzardo dei condottieri, è l'esaurimento del vecchio fante costretto ancora e ancora al coraggio senza slancio: attraverso il tempo mi rende uomo tra gli uomini, e oltrepassando il presente misero m'impedisce d'esser davvero miserabile.
E dunque attendo l'estate, fiero di questo privilegio che inizia a sembrarmi una vocazione: è con birre danze e liquori, che la carne da cannone senza dio si prepara alla battaglia. E alla prova costume.








lunedì 14 maggio 2012

auguri, zio.

Oggi è il mio compleanno. Tra due anni, saranno quaranta.

Mi piace, avere anche amici un bel po' più giovani di me. Anche.
Mi permette di ricordare, tenendo la vividezza a cauta scientifica distanza, come è stato doloroso, da ragazzetto, vedervi diventare adulti approssimativi, e come sia ora irritante, da adulti, vedervi diventare feccia frolla.
E se pure spesso vorrei, davvero non mi riesce di disprezzarvi. Merito di quel passato che sfoggiate come un curriculum in versione party: ma non è rispetto, il mio, è semmai comprensione e tenerezza per l'umana flaccidità, e dunque, in fondo in fondo, fangosa autocommiserazione. E allora vai giù pesante con gli amarcord, coi com'eravamo bestiali e in fondo ingenui, tutta una gioventù che si finge di minimizzare per edificare però mitica a garanzia degli stronzi impresentabili che in realtà siamo. Ma non ci sarà alcun boom a salvarci, puoi solo sperare d'essere assecondato a morte e che nessuno venga a dirti quello che già sai.
Chissà perché, dopo i trenta, si finisce col pensare al comando come fosse un diritto, fingendo oltretutto di non accorgersi che, dietro la scrivania, le passioni diventano tic e l'adolescenza chiacchere da caffè solubile. Roba da tener lontano dal fegato.
"Tutti compagni, tutti in chiesa a battezzare i figli" dice un vecchio amico che sa.
Non avete avuto pietà per voi stessi e ora, sorpresa!, non ci sarà alcun boom a salvarvi, non ci sarà alcun fine a giustificare quei mezzi, niente di niente. È una buona notizia.
Ultimamente, penso spesso ai vostri figli, veri o ipotetici: l'esempio che gli darete sarà ciò che siete e desiderate o quello che eravate e speravate? E nella prima ipotesi, quanto tempo servirà affinché vi sorga il dubbio che vostro figlio sia, al di là di tutto, un emerito stronzo?    

Se avessi un figlio lo vorrei irrequieto, e poi proverei a spiegargli che quella specie di cosa enorme che si porta a spasso e non sa proprio gestire, tipo una rombante ribollente marea montante, non è lui, come potrebbe per impeto di bambinesco egocentrismo esser portato a pensare: figliolo, gli direi, tu non sei quella specie di fiume in piena, tu sei il contagocce attraverso cui spinge, tu sei il minuscolo stitico argine che trattiene quella roba lì che senti crescere e crescere, e quella roba lì che è come un universo urlante in eruzione, stando lì bloccata dal minuscolo rinsecchito buco di culo che finirai con l'essere inizierà a farsi stagnante e fetida nonostante la continua esponenziale prepotente crestita.
Rilassati, figliolo. Rilassati e lascia passare. Chiudi gli occhi, lentamente, e lascia passare.

"Dammi del tu: siamo coetanei, ho visto. Da quand'è che prendi il sussidio?"
"Da gennaio."
"Eh, guarda: il problema è che, alla tua età, costeresti all'azienda praticamente il doppio del tuo stipendio lordo."
"Eh, sì, è un problema. Mi rendo conto. Però..."
"Dove lavoravi prima sei stato licenziato?"
"No, no: è scaduto il contratto e..."
"No, perché vedi: per noi sarebbe meglio, se t'avessero licenziato."
Cristo, che sfiga.

giovedì 10 maggio 2012

editor torinese, gatto genovese.

Le nostre preghiere sono solchi scavati nelle sale d'aspetto.

Tempo fa, dopo un'attesa di un paio d'ore, incontrai il direttore di un noto mensile per cinefili: tutto ciò che ottenni dal tizio, celebre per la sua fotogenia in un ambiente in cui il più fico ha la faccia di chi chiama la mamma per farsi schiacciar via i punti neri, fu la perla di saggezza "io ho cominciato vendendo materassi".
È una vita che comincio, ciccio, e i posti per vender materassi son tutti occupati da gente con lauree più suadenti della mia: altri sessant'anni di cinema, e magari sarai riuscito a farti una vaga idea del mondo là fuori.

Fumo, disegno ovali muovendomi in ambienti ostili, penso che probabilmente avrei più possibilità cancellando la laurea dal curriculum.

Ad un incontro per orientare i vecchi disoccupati, noi vecchi disoccupati bisognosi d'orientamento incontriamo un giovanissimo torinese venuto a raccontarci, a spese della regione Liguria, che a fare il suo bellissimo lavoro nel posto di maggior prestigio in cui è possibile svolgere il suo bellissimo lavoro sono solo in due, e che per quel bellissimo lavoro, che consiste sostanzialmente nel valutare se, quanto e perché sono o non sono invece bellissimi i lavori degli altri, per una serie di fortunatissime coincidenze lui non ha neppure dovuto studiare. È un lavoro bellissimo che presuppone metodo e conoscenze davvero enciclopediche, ma lui ha talento, ci vuol suggerire, quel tipo di innata capacità rabdomantica che gli permette ad esempio di ciucciarsi i fondi destinati all'orientamento per venirci a dire in cambio che lavoro, nel suo campo, ce n'è a malapena per lui. Lasciate perdere, ci dice, non provate neppure, anche se siete laureati e capaci, solo a me è data la possibilità di mantenere quest'impossibile lussuoso ciuffo birbante scolpito in modo selvaggiamente preciso e il cui ritmico ciondolare ipnotizza, ora, questa platea di reietti impedendole di vedere il niagara di stronzate che son pagato per propinarle.

Il mio gatto arriva alle porte sempre prima di me. In quell'attesa di pochi secondi, prima che io arrivi a liberargli l'accesso, riesce a fare almeno tre giri su se stesso: è evidentemente una risposta animalesca all'attesa, uno di quei fenomeni in cui i nervi scavalcano testa, peli e ossa per lasciarti come in sospensione nel mondo, un po' come quando lo sguardo e ciò che lo sostiene rimangono fissi su qualcosa ma come persi in quella sfocatura che davvero non sapresti dire in che misura è coatta o volontaria. Ecco, mentre aspetto, disegnando coi passi il solito ovale sull'ennesimo pavimento sconosciuto, quest'epifania m'interrompe il passo per trasformare, implacabile, la mia presenza e il mio approccio al futuro immediatamente prossimo: sono una bestia, cazzo, sono una bestia, e forse questa porta verrà aperta proprio dalla mano che mi  darà la pappa.
Per riempire la ciotola, come per leccarsi poi ben bene fino al sottocoda, non sono richieste lauree specifiche. Al massimo, un DIPLOMA QUALSIASI.


domenica 6 maggio 2012

Il tuo nome sarà come il camogli.

Viaggio poco, ma mi ricordo sempre di scrivere il tuo nome in ogni cesso d'autogrill in cui mi trovo a passare. Accanto, col mio tipico leggibilissimo stampatello, segno il numero del tuo cellulare, a volte quello della ditta, altre il tuo personale.
E siccome mi trastullo immaginandoti rispondere alla chiamata mentre sei in riunione, o impegnato in qualcuno dei tuoi disastrosi tentativi di procacciamento, lascio scritto cose come "se sei dotato, telefonami e dimmi che chiami per sottopormi un grosso affare", oppure "chiamami e dimmi che hai grosse liquidità da investire in quel piccolo affare di cui ti hanno parlato un gran bene". Cose così.
Lo so: il mio gesto è fondamentalmente ambiguo, e potrebbe persino esser scambiato per  una sorta di  celebrazione situazionista del tuo vincente modo d'aderire al lercio della vita.
Comunque sia, lo faccio senz'odio, disprezzo o rancore.
È solo che sto tentando di diventar metodico. Aiuta, mi dicono.



domenica 29 aprile 2012

un'altra indispensabile premessa.

Alcune disoccupazioni fa, parecchio tempo prima di diventare il  VECCHIO MOTOMUNITO che attualmente consapevolmente sono, mi trovai a trascorrere un'intera mattinata nell'attesa di sostenere un colloquio i cui criteri e scopi m'erano, e mi rimasero, oscuri. Mia madre aveva ricevuto una soffiata: pensa, c'è gente che ha affittato un intero stabile in periferia solo per reclutare, vai a vedere, prendi il curriculum e vai, può essere la volta buona, eh.

Quando il caso pare casualmente insistere in una direzione, le casualità  appaiono sorprendentemente appropriate: l'edificio deputato all'incontro si trovava e trova tutt'ora nella via che porta al cimitero cittadino, appena prima del vecchio macello comunale in disuso. Davvero, giuro.

Riconosco immediatamente nella tizia impegnata nella GESTIONE DELL'INGRESSO, con tanta esibita serietà da risultare immediatamente losca, una nota laidona locale, evidentemente convinta che cazzuolate di kajal possano valorizzare un viso molle e perfido, e che abnormi gonnelloni orientali siano un'idea brillante e risolutiva per render più discreto un fondoschiena gargantuesco: tale risultante catastrofico ibrido tra il giovane Omar Sharif e le natiche del suo cammello ingualdrappato a festa è noto da sempre per le assidue frequentazioni malavitose, e ciò aggiunse all'attesa dell'incontro una certa inquietudine e, non lo nascondo, un certo crescente friccichio di curiosità.

Giunto il mio turno, abbandono l'ambiente in stile minimal-lercio-ospedalizio per incontrare finalmente, in una stanza davvero troppo simile ad un corridoio per non essere effettivamente un corridoio, la creatura che da allora infesta il mio vagabondare in cerca d'occupazione.
Per onestà, confesso che da qui in poi tutto si fa piuttosto vago.
Ricordo bene tutti dettagli fondamentali, però, e che ad esempio il bizzarro essere in questione, dopo aver soppesato velocemente i risultati di una spassosissima scheda attitudinale fattami compilare all'ingresso, mi offrì nientemeno che un ruolo, da definire, al servizio di una multinazionale, di cui al momento non era autorizzato a fare il nome, che intendeva lanciare sul mercato un prodotto rivoluzionario di cui però in quella fase preliminare proprio non poteva parlarmi.
"La parola chiave è robot", mi suggeriva con aria solenne.
"Vendiamo il futuro".
Chissà.

Comunque sia, e questo è in sostanza tutto quello che qui volevo arrivare a dire, sappiate che, da quella mattina lì, ogni volta che vengo sorridente a farmi valutare da voi, mostrandovi come però foste voi a scoprirle tutta la mia sorprendente adeguatezza e la mia quasi cristiana buona volontà, in realtà è con lui che io sto parlando, è a lui che racconto per l'ennesima volta la versione accattivante della mia vita lavorativa.
Spiace sempre sentirsi dire certe cose, lo so, eppure va fatto: voi non siete per niente chi credete di essere, mettetevi l'animaccia in pace.
Voi siete la figura striminzita e barcollante emersa da quello stanzino buio che pare proprio un corridoio: siete inutilmente, pateticamente impegnati a risultare imponenti sporgendovi da una scrivania vuota ingiustificatamente enorme, indossate sopra la camicia grigia con motivetti geometrici argentati una giacca turchese di almeno due taglie in più di quella che vi calzerebbe e con spalline così prominenti da far pensare alle maniglie che satana in persona usa per manovrarvi con scatti sgraziati, siete a malapena maggiorenni ma dimostrate quindici brufolosissimi anni e una certa consumata familiarità con la cocaina, avete l'atteggiamento insieme aggressivo e inquieto del cacciatore perso nel bosco, recitate per l'ennesima volta la vostra vuota grottesca parte con voce infantile impostata e il tono monotono ma inspiegabilmente altalenante dello schizofrenico, esibite un'improbabile pettinatura liscia e lucente da omino lego, a incorniciare quei piccoli occhi da roditore persi nello sproporzionato faccione piatto da malvagio babbeo.  
Ci siamo incontrati la prima volta nella penombra, tra il macello e il cimitero.

giovedì 26 aprile 2012

intermezzo senza direzione, ma con canzone.

È proprio vero, che a un certo punto ci pensi seriamente, a mollare tutto. Ma quel tutto è diventato tutta un'altra cosa con tutt'altro peso specifico, e l'allevamento intensivo t'ha costretto così tanto la visuale che l'esotico s'è trasformato prima in urbano ma non troppo lontano, poi in rurale purché nei pressi del luogo natale, e infine in forse è proprio qui nel vicinato che sarò finalmente fortunato, sta a vedere che è proprio qui sotto che faccio er botto.
E poi il lavoro diventa una roba sempre più marginale che sarebbe davvero un sogno trovare appena sopportabile e perfino confortevole nella sua media dignità, con scarse soddisfazioni ma per favore con poco impegno, un grigio ottundente da abbracciare con gratitudine e in cui immaginare senza troppo entusiasmo di scavarsi quel poco di spazio necessario e sufficiente al sopravvivere di quello stramaledetto non so che indispensabile pure per riuscire a sciacquarsi la faccia il mattino.

E allora insomma per farla breve quasi quasi io chiedo un PRESTITO ai papponi e apro una LAVANDERIA A GETTONI, ecco.
Magari, ci piazzo dentro pure un jukebox.
 


venerdì 20 aprile 2012

step inside.

La fine s'avvicina, e lo sappiamo tutti: intorno, è tutto un fiorir di classici SEGNI NEFASTI, e il fatto che non si riesca che a riderne è proprio l'ulteriore e decisivo segnale.

Qualche giorno fa, nel locale dove piuttosto spesso vado a pranzare (mi costa meno che fare la spesa, davvero: il lusso si fa beffe della sopravvivenza, spesso e direi volentieri, giusto per tener allenato e scattante il gusto allo sperpero), ho rivisto lo stronzone che a suo tempo mi fece il colloquio di lavoro per il posto su cui ho poi effettivamente sistemato per ben quattro anni le mie insofferenti chiappette. Appena agganciato il suo sguardo (risponde al mio psichedelico ghignante saluto con un certo turgido imbarazzo), ignoro la panterona al tavolo con lui per concedermi la lussuria di fissargli con vistosa insistenza le mani.
Gli manca un dito. Indice. Me l'avevano detto, a suo tempo.
Eppure, durante quel lungo decisivo colloquio mica me ne accorsi.
Si è sempre in due a fingere, in quelle situazioni: io fingevo d'essere esattamente il PUPAZZO che immaginavo cercassero, e lui fingeva d'essere un tizio manager vincente dotato nel complesso di ben dieci dita (considerando solo le estremità superiori: i possibili sconcertanti segreti custoditi da quelle inferiori sono qui irrilevanti).
Bravi entrambi, sì, ma la sua performance fu innegabilmente superiore.

Quella è gente che non freghi mai davvero, manco quando sei proprio convinto che sì, perchè lo schifo vero, con tanto di correlato adeguato travisamento, non s'improvvisa, richiede anzi una dedizione totale lunga una vita intera, e nel frattempo, lo sappiamo bene, alla servitù è riservata solo l'estrema snervante umiliazione di mantener GIOCOSA L'ATMOSFERA mentre grotteschi moncherini si scarpettano via tutto il buffet.

a margine.

(il piè di pagina degli annunci di lavoro, prima supplica Parti con Costa Crociere, e poi sobilla Incontri Extraconiugali, come a suggerirmi nel complesso "spenditi gli ultimi soldi per andare a crepar lontano, tu che normalmente sei così congelato nella nullafacenza che giusto con l'idea di variar saltuariamente purchiacchera, ti puoi trastullare e fingere d'esercitar arbitrio")



mercoledì 18 aprile 2012

no toys, per favore.

La stramaledetta versione barbona ipersteroidea di Platinette per circa un'ora gira e rigira intorno alla delicatissima scabrosissima questione del compenso: una sorta di timido acrobata della sega, da come e tanto mi titilla badando ben bene a non urtarmi le palle. Per il contratto, mi rassicura, nessun problema, e poi riparte con l'allenatissima supercazzola per evitare il punto ed offuscarmi il giudizio: d'altronde, mi rassicura ancora, nessuno dei suoi accàunt s'è mai lamentato dei cinque euro a consegna, e lui non è mica uno di quegli sfruttatori là. Ma soldi non ce n'è, e tu non sei mica più un ragazzino, eh. Anzi.
Una volta, qui, era un continuo squillar di telefoni, ci credi?

Un lavoro così, c'è chi mi pagherebbe, per farlo.

Se fossi giulivo e analfabeta, caro il mio frallòppo fasciociccione, mi proporrei candidamente a te come PROPOTRICE, ma la vita, pure in questo preciso momento, lavora per far di me un osceno giullare del colloquio conoscitivo, una diplomatissima ragazza immagine pronta sì al nudo integrale, ma solo a patto che non ci siano, intorno, rapaci scodinzolanti TOYS pronti a violarle pure quell'ultimo rinsecchito residuo di sacralità.
La richiamo io, eh. Tante care cose.

corpo finito.

Leggo:

IMPIEGATO/A UFFICIO ASSUNZIONE CORPI

Non ho idea di cosa significhi "corpi settore diporto". Ma un corpo rimane comunque un corpo, no? Voglio dire: è perfino arduo farne una metafora che non salti all'occhio immediatamente goffa, sgraziata, e si presta meno delle ossa e dello scheletro che pure avvolge e custodisce a diventar simbolo, no? Forse no.

Cercano corpi.

Forse, allora, il cammino fin qui è stato davvero uno specifico apprendistato, un contratto a progetto zen, un periodo di prova buddista in vista della sospiratissima assunzione a tempo indeterminato in qualità di corpo finito e formato.
Manderò il curriculum.
Allegherò lettera di presentazione: "Fate di questo corpo ciò che volete e, se non riterrete adeguata la sua esperienza e formazione, fatelo sgobbare gratis come si usa e conviene in vista del prossimo step, del ruolo e livello lavorativo che riterrete in futuro per lui più consono: insegnategli a esser carne, ma insegnateglielo prima che vincano i vermi."