martedì 14 maggio 2013

minaccia di far bello.

E poi arriva la primavera, e c'è quella spinta animalesca a star bene che agisce pure a ritroso, avvolge e persino condona i ricordi, e sei improvvisamente a tuo agio nel sentirti inadeguato buffo e debole, come d'altronde sempre davanti alla bellezza. E nonostante l'umore abituale sia comunque sempre lì e sempre ben altro, e lo ricordi bene, ti svegli con quella gioia ineludibile che ingloba tutto, persino il più turpe dei propositi, quella gioia cioè che non cancella, ma per un po' coesiste chissà come con rabbia e frustrazione come fissandoli in quest'istantanea sgargiante che, col coraggio dovuto anch'esso a questo particolare momento, t'azzardi a chiamare stato di grazia. O forse è che son nato in primavera, e ogni volta ogni anno i nervi risuonano riconoscendo il mondo di quando per la prima volta ho aperto gli occhi cisposi come scartando il primo regalo. Se così fosse, bisognerebbe esigere di tirar le cuoia nel periodo che ci diede pure i natali, così d'aver la possibilità d'andarcene con un sorriso.
Da bimbo la primavera era allergia, naso che sanguinava all'improvviso ai giardinetti.
Ora, è quest'impulso a spinger fino in fondo l'uccello nella vita.
Comunque sempre qualcosa con cui scendere a patti, chiaramente.

È con quest'animo, oggi, che coccolo il mio disprezzo per te. Sì, potrei lasciarti andare nel passato insignificante che abiti, ma - cristo! - qualcuno dovrà pur farla questa ginnastica di definire con tratti vividi e persino briosi ciò che il tempo sfuma con mano tremula, no? Specie ora che in realtà pian piano s'allontana da te la mia insofferenza, e specie fintanto che ribolle di primavera il sangue che pompo nel cuore secco, nel corpo molle.

L'amico falegname per cui ho lavorato, una vita fa, ha pagato con un occhio un minuscolo errore di distrazione. Gliel'ha sfondato un paletto. Sembrerebbe quasi quel proverbio là, in cui però gli occhi degli altri son pieni d'innocue pagliuzze.
  
E tu, invece? Sempre tutto liscio?




sabato 11 maggio 2013

cani.

Ho bisogno di carta per stampare, e le segretarie mi dirottano da uno dei due fratelli. Se ne occupa lui, mi spiegano.

I due fratelli sono entrambi al di là del border del borderline, e sono entrambi due assoluti schiavi.
Quando tu, boss, dimentichi qualcosa in ufficio, loro scattano a recuperartelo pure la domenica all'ora di pranzo: me li vedo, a mollar lì l'abbacchio di mammà per correr via borbottando come borbotta chi fingendosi riluttante si fa pubblicamente eroicamente carico di responsabilità soverchianti. Hai dimenticato il blècberri? Un appunto, un disegnino che comunque prima di lunedì non ti serve? Nessun problema.
Quando hai passato un anno a Londra senza dir loro di venirti a trovare, e senza neppure fare uno squillo per dir ciao, ci son rimasti davvero davvero male: uno dei due me lo confessò con gli occhietti colmi di tristezza e fanciullesca delusione. Quando tornasti, erano friccicarelli come gattine alla prima primavera.
In cambio della loro fedeltà assoluta, vengono tollerate le ore di straordinario nel fine settimana, pure se effettivamente non c'è un cazzo da fare e infatti in ufficio non c'è nessun altro.
Non hanno vita sociale di nessun tipo, ovviamente.
Vivono coi genitori.
Uno è un puttaniere iroso e collerico, un Louis de Funès col mugugno sempre pronto a volgersi in calcetti rabbiosi a porte e muri in cartongesso, l'altro ha una bizzarra malattia dei nervi, tale che se anche per sbaglio sente parlar di sesso scaraventa lontano con microconvulsioni violentissime qualsiasi cosa stringa al momento in mano, tipo mouse, bic, panino alla nduja, cannolo siciliano. Il fratello gli manda appositamente, via mail, foto di lucide troione motocicliste maggiorate: per vederlo in preda alle convulsioni, davanti a tutti. Uno spasso. 
Non contano un cazzo, ma quella loro follia ben saldata all'aziendalismo cieco li rende pericolosi.
In cambio di qualche biscottino, il capo ne ha fatto cani da guardia e sollazzo.
Tutti li assecondano e poi pigliano segretamente per il culo, pochi li disprezzano come in fondo meriterebbero. Come se far di loro dei poveracci fosse meglio che pensarli stronzi: strana cosa, lo snobismo della pietà.

Dopo averlo rincorso inutilmente per almeno tre piani dell'edificio, mi scontro col fratello collerico proprio nel corridoio che termina nell'ufficetto che l'esagitato divide con gli unici due colleghi capaci di sopportarlo, e domando gentilmente se sa dirmi dove posso reperire la carta, facendo presente che sono state le segretarie ad indicarmi proprio lui come referente. Lui sbotta, saltella, s'impaonazza, rotea l'indice nell'aria manco sperasse con quello di decollare fino all'altezza utile per fissarci in muso, parte con una filippica cospirazionista in cui finisco col far parte di un imprecisato insieme "voi" ligio al completo contagioso destabilizzante osceno fancazzismo. Urla, quasi sbava. Mi limito a sorridere e chiedergli perché mi da del voi, poi decido d'allontanarmi per lasciarlo lì nella sua brodaglia rancida e pepatina.
Le porte degli altri uffici sono aperte: fanno tutti finta di niente, pure se lo spettacolino offerto è evidentemente per loro, affinché sappiano bene quant'è oberato persino di pinzillacchere. È un prepotente, d'accordo, ma è innanzitutto un poveraccio, eh. Meglio non immischiarsi, cazzi miei.

Una volta, tornando a casa dall'università, in treno, un tizio m'ha tenuto il coltello alla gola per una buona mezz'ora. Non c'erano scompartimenti. Il controllore intuisce che qualcosa non va, glielo leggo in faccia, ma in quel momento il coltello è provvidenzialmente sceso alla pancia, e d'altronde i biglietti sono stati regolarmente vidimati. I pendolari seduti appena oltre seguono tutto, e infatti poco dopo uno di loro mi dirà tutto indignato "è uno scandalo, che il controllore non abbia fatto niente".
Per mezz'ora abbiamo parlato e trattato, e alla fine lui è sceso con solo cinquanta dei cento bigliettoni che avevo nel portafogli.
Spossato, tremante per l'adrenalina in discesa, mi sfogo col cittadino guardone solidale: vattene, brutta merda, vattene o quant'è vero il porcoddio t'ammazzo.

Faccio dietrofront, irrompo nell'ufficio. Non ti devi permettere, brutto servo sfigato, non ti devi permettere. Con calma, con calma, lo sfotto e rimbrotto con calma e precisione, come van fatte le cose dovute.
Dopo qualche secondo sbigottito, lui s'alza e si lancia verso me. I due colleghi lo bloccano, occupandosi d'un braccio ciascuno. Mi minaccia, urla di volermi spaccarmi la faccia, ma la presa fiacca dei due mi confida che posso star tranquillo: deve solo sfogarsi un po' così, simulando la quantità esatta di testosterone che reputa appropriata alla situazione. Rimango immobile e sorridente mentre mi alita insulti a pochi centimetri dalla faccia. È basso, il suo ringhio mi riscalda collo e cuore.
Mi diranno che dovrei denunciarlo, che potrei farlo licenziare. Piacerebbe quasi a tutti, toglierselo di torno rimanendo per di più nella comoda situazione di dolersene biasimandomi. Non farò nulla, ma lui sì.
E tu, che sei il padron buono del branco di chihuahua rabbiosi, me la farai pagare.

Giuro che quella notte avevo sognato un grosso cane. Tentava d'azzannarmi alla gola, giuro. Nell'ombra, qualcuno teneva ben saldo il guinzaglio, tiratissimo. Spalle al muro, sentivo il fetore caldo dell'alito della bestia che se ne stava con le zampe anteriori sospese verso di me, il corpo tozzo muscoloso scattante teso in diagonale, la bocca sbavante spalancata sul mio collo. Tutta la scena immobile, solo l'attacco ai sensi di ringhio, puzzo, paura. Giuro.

Al loro peggio, capisco, questi giorni sono la parodia d'un incubo.
Siamo ridicoli, e dunque manco nel penare può esserci perfezione.