giovedì 22 agosto 2013

come sopra.

Seguiamo le nostre stesse tracce fino alla fine: a ritroso, mettiamo un piede dopo l'altro all'interno delle orme lasciate per arrivare sin qui.
Le orme son sempre vuote, per definizione.

So che hai diviso l'infanzia tra due padri, uno, acquisito, in campagna con mammà, e l'altro in città, gran elegantissimo avvocatone del diavolo impegnato con mani pulite mentre tu bimbetto ragazzetto l'ammiravi e desideravi a distanza scorrazzando per prati, campetti e provincia. Serve altro, per conoscerti? Cresci viziato, coltivando l'arroganza in risposta all'imbarazzo delle tue origini parzialmente campagnole.
Ma mancano gli aneddoti, quei piccoli dettagli quotidiani che poco a poco modellano l'immagine del sociopatico vincente. Avevi degli amici? Com'eri tra loro? Cosa pensavi pensassero di te? Come li hai persi? Mancano tutti quegli incontri e scontri microscopici importanti solo per te. E tutte le volte in cui hai creduto di capire davvero qualcosa di te stesso, ad esempio.
Quello che manca, è esattamente tutto ciò che andrà perso.

I figli delle merde lavorano tutta la vita alla successione, oppure mirano direttamente al prosciugamento del tesoretto immaginandosi fotografi, architetti, scrittori, artisti: in tutti i casi, che godano nel batter strade asfaltate oppure nel farsi finanziare ad oltranza struggimento e incomprensione, ciò che li muove è zuppo di desiderio di comando, prevaricazione e disprezzo assoluto per la massa. Persino per i più simili tra i loro simili.
Lo scempio ha sempre una storia ben delineabile, ed è sempre un affare di famiglia.
Bile, occhi, orecchie, coglioni: sono pur'io parte dei beni rinsecchiti che ostinatamente consumate. Per la gente come te l'esistenza stessa, intera, è territorio da colonizzare.
Sono nato esausto almeno quanto tu sei nato stronzo. Le risorse sono finite da un pezzo, e dunque i nostri ruoli son sì prestabiliti, ma già fuori dalla Storia.
Bisognerebbe estinguersi, togliere il disturbo senza manco salutar nessuno.

Lo scrittore che vive nel mio condominio mi piace. Difficile non aver simpatia per chi regolarmente si gode aperitivo o cena, in solitaria, al bar o alla trattoria della piazza. Sfrontatamente sereno, oltretutto. Aspetta da mesi il ritorno del figlio, zaino in spalla in esplorazione solitaria del Sud America. "È un viaggio di formazione", mi spiega orgoglioso mentre aspettiamo il turno dal fruttivendolo. S'è fatto vivo un'ultima volta prima d'inoltrarsi in una zona priva di qualsiasi possibilità di comunicazione, ha scritto d'aver capito di voler seguire le orme paterne e ha allegato alcuni capitoli da leggere. "È anche bravo", mi dice.
Figliare è l'unico modo per invecchiare aggrappati al presente? Pure per uno scrittore?
Non siamo che bestiacce, davvero.
Esistesse un dio, non aver concesso coscienza di sé alle piante sarebbe una crudeltà, un'idiozia sufficiente a farsi bandire dal suo stesso creato.

Ma probabilmente in questo momento i fiori sul balcone mi stanno osservando benevoli, meravigliosamente incapaci di compatirmi.




giovedì 8 agosto 2013

tracce.

C'è l'attesa.
I muri della facciata sono in granito, direi. Marmo? Non me ne intendo. Comunque, di uno di quei materiali lì che si rancan via dalla terra. Ci sono dei buchini, qua e là: ci si può infilare un mignolo, se proprio vuoi trasformare un'unità di misura a portata di mano in uno di quei gesti infantili da fare quando sei sicuro che nessuno ti stia guardando. Ho visto un'ape infilarcisi dentro, sono ore che aspetto che esca. Tutta quest'enormità razionalista potrebbe quindi esser ripiena di miele, ecco. No, non è una metafora. Visualizzo l'implosione controllata del palazzo, gli operai che s'incamminano nel polverone accorgendosi poco a poco dello sciroppo in cui intingono gli stivali, la polvere che cala liberando spazio nell'aria alla nuvola d'insetti increduli e giustamente pronti alla battaglia contro qualsiasi cosa.

Ché alla fine, mi dico, ci sono migliaia di motivazioni e persino forse qualche giustificazione, se uno diventa un assassino, ma non ce n'è mai nessuna veramente valida per l'uomo che diventa uno stronzo. No? L'esercizio d'immedesimazione con l'assassino è umanissimo e a volte persino eroico, è quello con lo stronzo ad essere realmente disturbante, è un salto nel vuoto che non dà spazio a catarsi, non offre fughe dall'involuzione inesorabile, dall'abbraccio di pece del modello vincente, una tortura di noia, di croste sgargianti, di medietà indossata da portatori sani d'apocalisse. 

Uscite, apine, uscite.

Hai l'ultimo modello di aipòd vuoto perché non sai cosa metterci a parte quella canzone là che ti ha fatto sentire quella tipa in macchina e tu accidenti non eri proprio preparato e quando succede è sempre imbarazzante e ora hai l'aipòd pieno di quelle canzoni là di tutte quelle situazioni là che si accumulano, pensi sia appropriato e persino fico dire che ascolti un po' di tutto e che però ti piaceva "l'elettronica" quand'eri giovane pure se in effetti non è vero e quelle poche volte in discoteca eri pure a disagio perché lì si è così vistosamente anonimi e il vistoso in generale proprio non ti piace non lo capisci t'imbarazza specie in quella situazione lì che parrebbe pure un ossimoro, non hai passioni a parte le partitelle che mantengono in forma belli asciutti e per un po' ti sembra davvero di stare tra amici e quel poco lì te lo fai bastare perché di più non è il caso e comunque chissà perché di più non capita mai, non ti frega niente della politica della nazione della gente al di là di sapere a chi rivolgerti per determinate cose ch'è meglio non dire a meno che non capiti l'occasione per vantarsene e comunque niente va oltre lo svilupparsi sicuro diritto della tua vita ma la sinistra è puzzona disordinata fastidiosa e ti fa sentire ignorante su cose che non sai ma non sai perché pensi di non averne nessun vantaggio ma chissà perché a volte poi ti senti comunque colpevole e ignorante per via di tutte 'ste cose inutili, la figa è sempre un pregiatissimo argomento tra uomini ma vuoi mettere un porno con la noia di una conversazione in cui non puoi parlare di lavoro o di te stesso ch'è la stessa cosa, di quanto sei importante e delle tecniche trucchetti letti sperimentati che credi di conoscere e sapere funzionali ad ottenere rispetto e paura perché sì stringistringi bisogna farsi temere mantenere le distanze mantenere ben saldo il timone o meglio dare quell'impressione lì perché alla fine in realtà che ti frega si fottano comunque tutti e tutta la nave ché solo la mamma ti vuol bene tanto più adesso che s'è rincoglionita e andarla a trovare è faticoso e pure i porno dopo un po' è come guardare i cartoni animati e quindi boh, uno su mille ce la fa ti diceva come la canzone che comunque resta una gran bella canzone anche se intuisci che non devi mai dirlo in pubblico e tu sei quell'uno lì perché sei in gamba laureato conosci gente e ci son favori che si ricambiano per una vita intera, sei brillante perché te lo fa credere chi ti teme o chi ti compatisce e non ti rapporti con altre tipologie di sentimenti a parte questi specifici due, bisogna portare a casa la giornata da vincitore anche se poi in effetti non dormi lo stesso e la cosa strana è che proprio diresti di non aver pensieri, ma non pensieri brutti proprio pensieri in generale, è difficile tener chiusi gli occhi ma forse pensare alle vacanze può aiutare e quest'anno vai in quel posto là che conosci molta gente che vorrebbe andarci ma non può dev'essere una meraviglia pure se in effetti non sapresti mica definire esattamente cos'è che è una "meraviglia", una "meraviglia" è quella roba là che le persone i servi tengono come sfondo del desktop o come salvaschermo, la natura le isole le cascate i culi le tette gli addominali il verde il verdemare e quelle robe più astratte pasticci pretenziosi truffaldini che piacciono a chi non ha studiato materie scientifiche, oppure una vacanza di quelle che quando le racconti diventano avventurose e la gente pensa che sei uno in gamba che si adatta che gli piace scoprire le cose quasi per caso e se sei anche ricco le due cose insieme sono una calamita per segretarie porche annoiate anche se in effetti non ti piace mescolarti coi subalterni perché poi fatichi a tenere a posto, a tenere a fuoco i ruoli e poi insomma sei all'antica e non ti piacciono davvero quelle storielle che comunque a volte sogni e che si raccontano sui colleghi, son cose che non stan bene perché comunque la fedeltà il matrimonio la famiglia la chiesa la domenica pure se effettivamente che due coglioni, per mostrarti un po' vicino ai sottoposti devi ricordarti di chiedere a quello là che se la tira da intellettuale che cosa puoi portarti da leggere in vacanza, hai sentito parlar bene hai letto recensioni ma non è vero di quel libro là ne parlano tutti forse ci faranno un film ma non so hai voglia di cose leggere perché comunque sei in vacanza ma magari un classico è sempre un classico chiedi a quella lì che pensa di saperne più di te ma poi mi raccomando tronca il discorso prima che inizi a pensare d'esserti in qualche modo superiore oppure cambia, parlale all'improvviso della nuova macchina fotografica che ti sei comprato esibendo approssimazione così che sappia che tipo di sfizi ti puoi togliere con noncuranza alla faccia dei pezzenti e dei loro passatempi pezzenti, mantenere le distanze mantenere i ruoli mantenere il timone pure se non te ne frega un cazzo di niente e semplicemente vuoi quello che pensi vogliano tutti ma ne vuoi di più molto di più per farglielo vedere qualsiasi cosa sia, e niente ti turba di più che intuire intravedere che ci son persone che vogliono cose insospettabili incomprensibili ma alla fine son tutte cazzate, fingono, pure loro vogliono quello che vuoi tu, che sarebbe quello che voglion loro ma molto molto molto di più.

Sei stato fidanzato, per un po'. Un bel po', in effetti. Quando hai vissuto a Londra, a spese dell'azienda, lei ha mollato tutto per raggiungerti: s'è dovuta reinventare il lavoro, c'è da supporre, e magari pure un po' l'esistenza. Poi t'hanno richiamato. Perché c'è un limite a tutto, pure al tuo indecente plateale suggere avido dalla mammella lercia dell'S.p.A.
Hai fatto la valigia senza pensarci due volte e l'hai lasciata là. No, non la valigia. La promessa sposa.
Avrai valutato la situazione col metro con cui sei abituato a valutare qualsiasi cosa, immagino: nessuno è indispensabile, tutti sono sostituibili.

Da bambino, in campagna, osservavo e inseguivo le api con quel friccico, miscuglio di curiosità e paura, che forse è uno dei motori più potenti dell'infanzia. In uno dei miei ricordi più vividi, osservo un'ape come raccogliersi in posizione fetale per morire, lentamente. Mi aveva punto? Sul tavolone bianco accanto alla grande finestra che s'affaccia sul prato, la guardo morire. La luce del sole è fortissima, e tutto è bianco e lindo intorno all'insetto che muore.
Una sensazione che non mi è proprio più possibile ricordare m'ha inciso quest'immagine nella memoria.
È così, che funziona.

martedì 14 maggio 2013

minaccia di far bello.

E poi arriva la primavera, e c'è quella spinta animalesca a star bene che agisce pure a ritroso, avvolge e persino condona i ricordi, e sei improvvisamente a tuo agio nel sentirti inadeguato buffo e debole, come d'altronde sempre davanti alla bellezza. E nonostante l'umore abituale sia comunque sempre lì e sempre ben altro, e lo ricordi bene, ti svegli con quella gioia ineludibile che ingloba tutto, persino il più turpe dei propositi, quella gioia cioè che non cancella, ma per un po' coesiste chissà come con rabbia e frustrazione come fissandoli in quest'istantanea sgargiante che, col coraggio dovuto anch'esso a questo particolare momento, t'azzardi a chiamare stato di grazia. O forse è che son nato in primavera, e ogni volta ogni anno i nervi risuonano riconoscendo il mondo di quando per la prima volta ho aperto gli occhi cisposi come scartando il primo regalo. Se così fosse, bisognerebbe esigere di tirar le cuoia nel periodo che ci diede pure i natali, così d'aver la possibilità d'andarcene con un sorriso.
Da bimbo la primavera era allergia, naso che sanguinava all'improvviso ai giardinetti.
Ora, è quest'impulso a spinger fino in fondo l'uccello nella vita.
Comunque sempre qualcosa con cui scendere a patti, chiaramente.

È con quest'animo, oggi, che coccolo il mio disprezzo per te. Sì, potrei lasciarti andare nel passato insignificante che abiti, ma - cristo! - qualcuno dovrà pur farla questa ginnastica di definire con tratti vividi e persino briosi ciò che il tempo sfuma con mano tremula, no? Specie ora che in realtà pian piano s'allontana da te la mia insofferenza, e specie fintanto che ribolle di primavera il sangue che pompo nel cuore secco, nel corpo molle.

L'amico falegname per cui ho lavorato, una vita fa, ha pagato con un occhio un minuscolo errore di distrazione. Gliel'ha sfondato un paletto. Sembrerebbe quasi quel proverbio là, in cui però gli occhi degli altri son pieni d'innocue pagliuzze.
  
E tu, invece? Sempre tutto liscio?




sabato 11 maggio 2013

cani.

Ho bisogno di carta per stampare, e le segretarie mi dirottano da uno dei due fratelli. Se ne occupa lui, mi spiegano.

I due fratelli sono entrambi al di là del border del borderline, e sono entrambi due assoluti schiavi.
Quando tu, boss, dimentichi qualcosa in ufficio, loro scattano a recuperartelo pure la domenica all'ora di pranzo: me li vedo, a mollar lì l'abbacchio di mammà per correr via borbottando come borbotta chi fingendosi riluttante si fa pubblicamente eroicamente carico di responsabilità soverchianti. Hai dimenticato il blècberri? Un appunto, un disegnino che comunque prima di lunedì non ti serve? Nessun problema.
Quando hai passato un anno a Londra senza dir loro di venirti a trovare, e senza neppure fare uno squillo per dir ciao, ci son rimasti davvero davvero male: uno dei due me lo confessò con gli occhietti colmi di tristezza e fanciullesca delusione. Quando tornasti, erano friccicarelli come gattine alla prima primavera.
In cambio della loro fedeltà assoluta, vengono tollerate le ore di straordinario nel fine settimana, pure se effettivamente non c'è un cazzo da fare e infatti in ufficio non c'è nessun altro.
Non hanno vita sociale di nessun tipo, ovviamente.
Vivono coi genitori.
Uno è un puttaniere iroso e collerico, un Louis de Funès col mugugno sempre pronto a volgersi in calcetti rabbiosi a porte e muri in cartongesso, l'altro ha una bizzarra malattia dei nervi, tale che se anche per sbaglio sente parlar di sesso scaraventa lontano con microconvulsioni violentissime qualsiasi cosa stringa al momento in mano, tipo mouse, bic, panino alla nduja, cannolo siciliano. Il fratello gli manda appositamente, via mail, foto di lucide troione motocicliste maggiorate: per vederlo in preda alle convulsioni, davanti a tutti. Uno spasso. 
Non contano un cazzo, ma quella loro follia ben saldata all'aziendalismo cieco li rende pericolosi.
In cambio di qualche biscottino, il capo ne ha fatto cani da guardia e sollazzo.
Tutti li assecondano e poi pigliano segretamente per il culo, pochi li disprezzano come in fondo meriterebbero. Come se far di loro dei poveracci fosse meglio che pensarli stronzi: strana cosa, lo snobismo della pietà.

Dopo averlo rincorso inutilmente per almeno tre piani dell'edificio, mi scontro col fratello collerico proprio nel corridoio che termina nell'ufficetto che l'esagitato divide con gli unici due colleghi capaci di sopportarlo, e domando gentilmente se sa dirmi dove posso reperire la carta, facendo presente che sono state le segretarie ad indicarmi proprio lui come referente. Lui sbotta, saltella, s'impaonazza, rotea l'indice nell'aria manco sperasse con quello di decollare fino all'altezza utile per fissarci in muso, parte con una filippica cospirazionista in cui finisco col far parte di un imprecisato insieme "voi" ligio al completo contagioso destabilizzante osceno fancazzismo. Urla, quasi sbava. Mi limito a sorridere e chiedergli perché mi da del voi, poi decido d'allontanarmi per lasciarlo lì nella sua brodaglia rancida e pepatina.
Le porte degli altri uffici sono aperte: fanno tutti finta di niente, pure se lo spettacolino offerto è evidentemente per loro, affinché sappiano bene quant'è oberato persino di pinzillacchere. È un prepotente, d'accordo, ma è innanzitutto un poveraccio, eh. Meglio non immischiarsi, cazzi miei.

Una volta, tornando a casa dall'università, in treno, un tizio m'ha tenuto il coltello alla gola per una buona mezz'ora. Non c'erano scompartimenti. Il controllore intuisce che qualcosa non va, glielo leggo in faccia, ma in quel momento il coltello è provvidenzialmente sceso alla pancia, e d'altronde i biglietti sono stati regolarmente vidimati. I pendolari seduti appena oltre seguono tutto, e infatti poco dopo uno di loro mi dirà tutto indignato "è uno scandalo, che il controllore non abbia fatto niente".
Per mezz'ora abbiamo parlato e trattato, e alla fine lui è sceso con solo cinquanta dei cento bigliettoni che avevo nel portafogli.
Spossato, tremante per l'adrenalina in discesa, mi sfogo col cittadino guardone solidale: vattene, brutta merda, vattene o quant'è vero il porcoddio t'ammazzo.

Faccio dietrofront, irrompo nell'ufficio. Non ti devi permettere, brutto servo sfigato, non ti devi permettere. Con calma, con calma, lo sfotto e rimbrotto con calma e precisione, come van fatte le cose dovute.
Dopo qualche secondo sbigottito, lui s'alza e si lancia verso me. I due colleghi lo bloccano, occupandosi d'un braccio ciascuno. Mi minaccia, urla di volermi spaccarmi la faccia, ma la presa fiacca dei due mi confida che posso star tranquillo: deve solo sfogarsi un po' così, simulando la quantità esatta di testosterone che reputa appropriata alla situazione. Rimango immobile e sorridente mentre mi alita insulti a pochi centimetri dalla faccia. È basso, il suo ringhio mi riscalda collo e cuore.
Mi diranno che dovrei denunciarlo, che potrei farlo licenziare. Piacerebbe quasi a tutti, toglierselo di torno rimanendo per di più nella comoda situazione di dolersene biasimandomi. Non farò nulla, ma lui sì.
E tu, che sei il padron buono del branco di chihuahua rabbiosi, me la farai pagare.

Giuro che quella notte avevo sognato un grosso cane. Tentava d'azzannarmi alla gola, giuro. Nell'ombra, qualcuno teneva ben saldo il guinzaglio, tiratissimo. Spalle al muro, sentivo il fetore caldo dell'alito della bestia che se ne stava con le zampe anteriori sospese verso di me, il corpo tozzo muscoloso scattante teso in diagonale, la bocca sbavante spalancata sul mio collo. Tutta la scena immobile, solo l'attacco ai sensi di ringhio, puzzo, paura. Giuro.

Al loro peggio, capisco, questi giorni sono la parodia d'un incubo.
Siamo ridicoli, e dunque manco nel penare può esserci perfezione.



lunedì 18 marzo 2013

ancora inverno.

Il diffuso sentire - diciamo almeno un po' oltre l'affacciarsi d'un sospetto, ecco - che le vite degli altri siano sempre più semplici delle nostre è sintomo dell'universale deficit d'empatia o indizio di come ciascuno di noi sia effettivamente intrappolato nella vita sbagliata? Ci rifletto oziosamente mentre fa notte, sdraiato pancia a terra nel bosco dietro la villetta, osservandolo mentre, nella sua insignificante cameretta tutta legno laccato e gagliardetti da ruralbimbo sfigato, si abbottona la polo. Si specchia, non sa cosa fare dell'ultimo bottone: liberare un po' di pelle, o dar l'impressione che tutto sia a posto fino in fondo?
Ho male alla schiena. I reni, probabilmente. Ho molto freddo.
Sta per uscire? Inizia a nevicare. Sicuramente andrà a troie, cos'altro potrebbe fare? Non hai amici, me l'hai confessato quella volta là in cui cercavi complicità alla macchinetta del caffè.
Come sempre e come tutti, cedo alla contemplazione dei fiocchi: il fatto che il nostro faccia-a-faccia con la natura sia così incline a diventare un'esperienza psichedelica vorrà pur dire qualcosa, no? Mah. Guarda, guarda il cielo e come poco a poco perda senso l'idea stessa di precipitare. Solo la lentezza è inesorabile. È evidente. Ma devo rimanere lucido, ora, concentrato.
Oppure potrei rimanere qui, farmi ricoprire per poi lasciarmi andare alla vita breve, intensa e disordinata dei vermi sotto le pietre.

Per quasi un paio d'anni, saltuariamente, durante e dopo la laurea, ho provato a collaborare con una piccola casa di produzione tivvù. Il proprietario faceva mostra di sé con una certa parsimonia, forse parzialmente conscio d'apparire come ciò che effettivamente era, una sorta di grosso pappone semianalfabeta, un tipo vagamente minaccioso da completo marròn e cravatta giallo-oro: noi partecipanti a vario titolo all'impresa eravamo tutti ben convinti che l'attività fosse in realtà una copertura per qualche altra attività ancora più sgangherata e ignobile. Lo "sceneggiatore capo" era un nerd quarantenne impiegato in regione, motivo per cui nessuno degli altri capetti metteva mai più di tanto in discussione la sua parola: attraverso di lui passavano i finanziamenti o, meglio, la speranza di futuri finanziamenti. Liquidava le mie idee spiegandomi con sufficienza come, per scrivere, bisognasse prima aver vissuto, ed io ero decisamente troppo giovane per aver immagazzinato e compreso un numero significativo d'esperienze. Lui, piccolo, unto, grasso e coi capelli setolosi tipici chissà perché dei democristiani, divideva la propria esistenza tra l'ufficio, la scrittura d'insulse poesie e il corteggiamento intenso e disperato d'una attricetta dark folle, puzzona e dislessica col volto perennemente spalmato di cerone bianco. Si definiva dramaturg, lui, e sfiderei chiunque, vedendolo, a non scommettere che fosse un piccolo burocrate con l'hobby di tirar su barchette nelle bottiglie di vetro. Amava la grappetta dopo le passeggiate in montagna d'estate, i calzini bianchi da ginnastica dentro i mocassini consumati e parlar di figa sfoggiando la competenza d'un quindicenne e la morbosità del prete di paese. Suo maggior sostenitore era il regista dell'allegra combriccola, un cameramen di sky specializzato in riprese calcistiche che sognava di fare il gran salto nel dorato mondo della fiction: millantava amicizie di quelle che contano, ed esibiva la classica sicumera degli uomini intorno al metro e cinquanta d'altezza.
Una volta partimmo in quattro-cinque in macchina per fare un sopralluogo in un vicino motel con pretese di gran lusso: il dramaturg stava componendo un musical per una fantomatica compagnia di danza rumena che s'era resa disponibile, anche economicamente, alle sue ardite sperimentazioni. Il motel, il suo ampio salone e la sua splendida terrazza vista strada statale erano la location ideale, per quella coraggiosissima produzione dall'innegabile slancio artistico. Da quei mesi di scrittura approssimativa, di noiosissimi inutili brainstorming, di sogni di grandezza con danze e roteanti tette multicolor stile Las Vegas, tutto ciò che uscì fuori fu il pranzo improvvisato ma ugualmente luculliano che scroccammo quel giorno al motel, e quella fu dunque, molto probabilmente, la giornata più produttiva in assoluto dell'incredibile team di cui m'ero provvisoriamente trovato a far parte, ingenuamente rassegnato alla più cialtronesca delle gavette. Se non ricordo male, rimediai delle tagliatelle al tartufo. Buttale via.
Quando ebbi l'onore di leggere il copione del musical, anziché sperticarmi nelle previste lodi a cotanto genio adiposo osai far presente con evidente falsa timidezza e studiatissima modestia che, oltre a musica e danze, lì dentro forse mancavano pure storia, idee e sviluppo: apriti cielo. Per la prima volta, il dramaturg perse davvero le staffe e prese ad investirmi con vocetta tremula. Io, in tutta risposta, senza perdere la calma, azzardai "posso almeno correggere l'italiano, almeno gli errori di grammatica?"
Ecco, da quel giorno i tizi iniziarono seriamente a disprezzarmi, e se non mi lasciarono a casa fu solo, suppongo, per la sadica soddisfazione di veder bloccato lì, pagato con un misero rimborso spese, qualcuno con curriculum e futuro potenzialmente più promettenti dei loro. Potenzialmente.
Di quei mesi, ho ben presente il ricordo della raggiunta piena consapevolezza di come la calma assoluta sia davvero qualcosa capace di destabilizzare gli imbecilli. Anche se, lo so, suona tutto sommato piuttosto meschino, era qualcosa che mi dava particolare goduria, all'epoca.
Per dire di quanto perfezionai masochisticamente quella mia tecnica passivo/aggressiva: in quello stesso periodo, una sera al bar, sfinito da ore di quelle mie piccole sentenze sostenute con placida esasperante nonchalance, l'amico stronzo d'un caro amico con un balzo sorvolò il tavolino che ci divideva per scaraventarmi con lui a terra e saettarmi la faccia di pugnetti.
Ci sono infiniti modi, suppongo, per incanalare la violenza. Manipolare, gestire ad arte quella altrui, o avere la pretesa di farlo, è indubbiamente una forma d'estrema ferocia, e in quanto ragazzetto supponente e fondamentalmente debole non potevo non subire l'attrazione di quella mollezza falsa e prevaricatrice.
Comunque sia, un pomeriggio, nell'ufficetto smunto dello smunto dramaturg, dopo aver accolto l'ennesima lezioncina di scrittura creativa con il consueto distillato di fiacca sufficienza, ricordo che il regista afferrò una pistola di scena e, stringendomi il collo con il braccio sinistro per immobilizzarmi (io ero seduto, lui in piedi alle mie spalle), mi schiacciò forte la bocca della pistola sulla testa. Non ricordo cosa mi urlò, ma urlò. Uno scherzo, niente di più, certo, ma riconoscere chiaramente la spinta che ne stava alla base mi lasciò atterrito e pure parecchio confuso, poiché mi sentivo inaspettatamente sporco, colpevole e denudato: quella brutalità simulata colpiva con una certa precisione la mia prepotenza dissimulata, disvelando come tutto quanto stesse avvenendo all'interno della medesima gretta messa in scena.

Tutto questo riesco a metterlo a fuoco solo ora, a distanza di anni, solo ora che un inizio di maturità mi fa tardivamente apprezzare e desiderare l'umanità bella del corpo a corpo, contrapposta al silenzio e all'urlo ugualmente vuoti con cui si riempiono vite e piazze ugualmente tristi.
O forse sarà che a forza d'incassare schiaffi a uno poi, alla lunga, vien voglia di pugni, di qualcosa che miri non all'umiliazione ma ad un'autentica devastazione.
M'avete preso al fegato per una vita. Miriamo alto, ora, per favore, cosicché ci riesca infine di guardarci in faccia.

Dei colleghi mi raccontarono che, una volta, alla stazione hai quasi picchiato un barbone. Lo conoscono un po' tutti, quel barbone: si avvicina e chiede se "per caso" hai un panino per lui. Da sedicente uomo di marketing, avresti dovuto apprezzare il suo tentativo di estrema specializzazione, la sua contemporaneissima idea di limitare l'offerta (della sua domanda) al monoprodotto, ma sei uno di quelli che misurano la propria forza solo nello scontro con le debolezze altrui, e così hai preso a spintonarlo abbaiandogli in faccia, sicuro d'apparire vincente e integerrimo al tuo onnipresente venerante pubblico immaginario. Sei la maledetta merda trionfante, e l'idea di poterti trovare, io, una nuova inattesa inedita collocazione all'interno delle storie di tutte le vite che abbiamo anche solo sfiorato trasforma in piacere, ora, i brividi del gelo. Sei la mia personalissima preziosissima minuscola rivolta, e non avrai altro posto che questo, nel mondo.
Non mangio da giorni: voglio essere tutto pelle e odio. Tutto pelle e odio, tutto per te.
Ti mangerei tutto, cazzo.


martedì 12 marzo 2013

a ciascuno il suo.

La tipa ginnica con quelle hogan bianche-argentate-abnormi mai viste prima mi fa accomodare nello stanzone pieno di scrivanie abbandonate. C'è l'inconfondibile odore di grand'ufficio: polvere disinfettata. Moquette. Scaffali vuoti. Alla mia sinistra, sul fondo, un panzone piuttosto divertito sta spiegando al telefono "sì, insomma, il problema non è che quella salti la rata di marzo, che tanto voglio dire (ride), è che una donna di quell'età, quando perde il lavoro, insomma: la cosa diventa strutturale". Strutturale?
Compilo l'apposito modulo da allegare al curriculum, acconsento al trattamento dei miei dati personali, dopodiché la tizia ginnica mi accompagna tutta saltellante dal suo boss.
Lui è occhio e croce mio coetaneo e, una volta chiaritomi che il colloquio non sarà assolutamente in prospettiva di nuove imminenti assunzioni, mi spiega con minimale collaudata mimica che lo scopo della chiacchierata consiste, semmai, nel far passare il mio curriculum da una pila altissima così ad una un po' meno alta così.
È magro, ceruleo e con la testa a lampadina, gli occhi grossi e tondi e una fittissima capigliatura color cenere.
La tizia ginnica annuisce ad a ogni sua affermazione, a volte ripete addirittura le parole che chiudono le sue frasi. Ha gli occhietti vispi vicini vicini, e forse proprio per questo mi ispira tutto sommato una certa tenerezza. Sua vera unica funzione, direi, deducendo come per sottrazione, è sorridere in vece del capo.
Sembra gente abbastanza a posto, comunque.
Il problema è che non sanno proprio uscire dal loro ruolo anacronistico, e così appaiono fin da subito rassegnati a farmi sparar cazzate. Ne son ghiotti, seppur con paradossale riluttanza e persino un filo d'imbarazzo: non hanno la capacità, o la volontà, o il permesso d'aggirare quella consuetudine che gli impone d'affrontarmi come se non esistesse alcun contesto, e questo proprio mentre là fuori dalla finestrella il Paese intero urla. E quindi: "una persona con le tue esperienze, col tuo percorso, perché vorrebbe fare il cassiere nella nostra banca? Qual è lo stimolo, la motivazione, insomma?"
Beh, non so, che vi devo dire: uffici e segretarie mi paiono accoglienti, e magari mi faccio pure un'idea di come rapinarvelo, 'sto posto di merda?
"Guardi, lavorare mi piace, e mi piace ricominciare ogni volta da zero. Lo trovo davvero sinceramente stimolante, ecco."
E avanti così, a pigliarci per il culo. Non se ne esce.
Sono così brillante che rischio in continuazione d'andar sopra le righe, parlo, sorrido ora a uno ora all'altra che funge da eco pure ai miei sorrisi, racconto dopando e truccando a puntino la mia vita professionale manco fossi un Pantani pagliaccio sul monociclo, vendo così bene lo scatafascio che potrei uscire dall'ufficio indossando le hogan della tizia, se volessi.
A tratti, individuo il dubbio sulle loro facce, come un lampo: possibile che questo vecchio vincente affascinante ragazzetto dall'irresistibile brillante parlantina ci stia sapientemente pigliando per il culo?
"Comunque, per correttezza, la devo avvisare che solitamente diamo la precedenza ai neolaureati. Per una questione di percorso, diciamo: sono giovani e affrontano il lavoro allo sportello in prospettiva... ma lei, ecco... la prospettiva della carriera, alla sua età..."
"Beh, certo, mi pare più che giusto", dico.

Ho vent'anni, e con amici sono arrivato fin qui nel villone hollywoodiano nella campagna toscana per sentire cos'ha in definitiva da proporci il tizio. È stato pure con Jacopetti a girare Africa addio, il tizio in questione, mica robetta. Dice che dopo quell'esperienza odia i negri e che noi non possiamo manco immaginare cosa son capaci di fare, quelli lì. Ha visto cose. Tiene in cassaforte una sceneggiatura scritta appositamente per lui dallo sceneggiatore di Spielberg, ha inventato una macchina che trasforma l'otto millimetri in cinemascope, s'è ritirato dalle scene perché ha avuto già sette infarti e su un set vero non ci può proprio più stare. L'ultimo infarto l'ha avuto a cavallo, dice, e vedendo che la frase è priva di prosieguo capisco che intende proprio la bestia, e non un brevissimo periodo insignificante tra due momenti eroici della sua vita epica.
La sua seconda moglie è giovanissima, magrissima, pallidissima, biondissima e slavissima.
Non parla, non sorride, non partecipa, ubbidisce a comandi semplici tipo "prepara per tutti, che i ragazzi si fermano a pranzo" o "portaci un martini". 
La casa è così isolata e la situazione così irreale che ho una certa inquietudine. Potrebbe saltar fuori qualcuno e farci a pezzi. Magari questo cazzaro è un astuto porco regista di snuff. Non voglio assolutamente essere qui, quando tramonterà, ma lui ci ha già invitato a fermarci per la notte.
Per lui ho scritto la sceneggiatura del primo libro della Genesi, pensata per esser girata con un unico piano sequenza all'interno di un plastico. Tutto gratis, perché son studente e gli studenti si prestano.
È basso e complessivamente quasi perfettamente cubico, fuma il sigaro e parla con voce profonda e impostata distribuendo pause drammatiche a casaccio.
A tavola con noi c'è pure l'enorme cane da guardia della moglie. Immobile, è seduto a terra tra me e la slava: la posizione e il portamento son così tipici che potrebbe essere in gesso, e dopo pranzo finire in giardino tra nani e nudi neoclassici.
Il regista dice, compiaciuto, "guarda, mi basta posar gli occhi su mia moglie e quello lì mi ringhia", ed effettivamente il bestione conferma ringhiando.
Poi dice, a me: "prova a toccarle una gamba, dai, prova: prova a toccare una gamba di mia moglie. Guarda cosa fa."
Lei si gira e mi sorride, senza alcun entusiasmo. Pure il cane si gira a guardarmi, in attesa.
"Dai, prova!", insiste lui.

A fine pranzo mi dice tutto professionale che la mia sceneggiatura biblica gli è piaciuta un sacco, davvero ben pensata, ma ora vorrebbe che scrivessi per lui i vangeli, la vita di Gesù insomma.
Poi tira fuori un cd. Metal, si intuisce da copertina e logo. Sicuramente autoprodotto, deduco dai medesimi segni.
Dice, estraendo il libretto dalla custodia per porgermelo: "Guarda le foto. Questo è mio figlio. È il cantante. Non è identico a Gesùccristo?!? I-DEN-TI-CO. Devi scrivere la vita di Gesù, io la giro e lui fa Gesù".
Osservo la foto in bianco e nero del tamarro in posa.
"Beh, certo, mi pare più che giusto", dico. 







 



mercoledì 31 ottobre 2012

pane quotidiano.

Durante quell'ultimo colloquio in azienda, mi dissero che nessuno sapeva esattamente cosa facessi, poiché il mio diretto superiore non si curava di farlo sapere agli altri capoccia.
"Devi tenere la porta sempre aperta."
"Il riscaldamento non funziona: non posso costringere i miei colleghi a stare al freddo con la porta aperta."
"Fatti vedere, lo dico per te: vai a bussare alle altre porte e chiedi se c'è qualcosa per te. Non ti si vede mai: te ne stai rintanato e nessuno vede lo schermo del tuo computer. Chissà cosa fai, voglio dire."
"Sono al posto che mi è stato assegnato, e tutti i giorni collaboro con chi ha bisogno. Oltre a tutto il resto, naturalmente."
E avanti così. Il paternalismo è comunque umiliante, anche se testardamente provi a rifiutare il ruolo di pecora nera o figliol prodigo. Il messaggio era chiaro: non sei uno di noi, ed è esclusivamente colpa tua.

Il panettiere della piazza mi detesta. Non ne conosco il motivo, ma la cosa, per quanto assurda, mi risulta ogni giorno più evidente. Comunque, non importa. Quello che mi rode davvero, della faccenda, è la mia reazione, la mia posa involontaria: sono sicuro che un osservatore esterno, imparziale, giudicherebbe il mio atteggiamento tipico di chi ha qualcosa da nascondere. La classica coda di paglia. Forse il bonuomo pensa che sia stato io ad incidergli "suca" sul cofano dell'Alfa? Giudica la mia vespetta lilla e i miei modi riservati ma gentili troppo poco maschi per il tenore testosteronico del quartiere, e di conseguenza la mia presenza potenzialmente destabilizzante per la nipotina Rachele? Spiegargli che non posso comprare i suoi prodotti perché non consumo strutto acuirebbe il suo gerontobullismo?
L'irritante misera verità è che attraverso la piazza sempre circospetto, sempre a disagio, colpevole per ciò che so anche solo potenzialmente di poter pensare: porto a spasso una belva invisibile, è così che mi sento, porto a spasso una belva invisibile e certi sguardi indagatori mi risultano insopportabili.

Mi torna in mente un vicino di casa di quand'ero bambino: usciva poco e quando lo faceva camminava strisciando la schiena contro i palazzi, evitando gli sguardi, avanzando e indietreggiando a scatti imprevedibili manco fosse abitato e pilotato da un moscone ubriaco. Scheletrico, baffi e capelli neri untissimi, impermeabile tutto l'anno, puzzava di roba mal conservata in formaldeide. Dicevano che fosse finito così a furia di studiare, a forza di star chiuso in casa a preparar esami. "Non studiare troppo, ché fa male", mi diceva mia nonna. Non rimuginare. Immergiti nelle cose.
Attraversa la piazza a testa alta, perdio.

Alla settimana della moda ero tra quei pochissimi reclutati per giustificare col proprio lavoro sottopagato la presenza dei tanti strapagati per non far niente: un intero esercito agli ordini del Gran Stilista, gli sciamavano intorno per compiacerlo, coccolarlo e, alla fin fine, confonderlo per derubarlo delle briciole. Ogni tanto lui sbottava, urlava a quel suo plotone di checche petulanti "serve!! siete delle serve!!", e poi tutto tornava alla normalità: i tecnici fingevano di prendere ordini, inutili e discordanti, dalle decine di questi ricchi giovani parassiti assegnati al controllo artistico della fatica altrui, e il carrozzone del made in Italy avanzava esattamente come ciascuno sospetta che avanzi l'Italy tutto.
Io mi occupavo delle immagini che sarebbero state proiettate durante la sfilata: aggiungi una statua sul telo a destra, metti una texture sulla foto del cappello a sinistra, quel cielo lì sarebbe più bello con un po' più di blu, e via così. 
Un vecchio magrebino m'è stato addosso tutto il tempo. È uno degli assistenti personali del Gran Tizio, e s'occupava praticamente di tutto senza ovviamente saper fare un cazzo: in certi ambienti, nel cuore dolce del padroncino, l'esotico ruffianotto scodinzolante ha decisamente spodestato l'insulso chihuahua. Dal comportamento degli altri tecnici, capisco che risultargli simpatico è requisito fondamentale per portare a casa la pagnotta.
Fatico sul serio a mantenermi perlomeno cortese: lui è davvero invadente, mi racconta d'avere una vera passione per la grafica, accenna in continuazione all'importanza d'esser notati dalla gente che conta. Non mi molla un attimo. Il Maestro l'ha preso sotto la sua ala protettrice molti anni addietro, mi confida complice. Annuisco, sorrido, evito di fargli notare che quando si è ospiti ad un generoso banchetto ciò che a prima vista può sembrare un'ala protettrice è spesso, invece, il boccone del prete.
Mi si piazza vicino vicino. Nei momenti di massimo stress mi mostra delle schifezze sul suo costosissimo notebook dicendo "dovresti farlo così, ma meglio: io ho fatto veloce." Come se io avessi tempo, come se lui non avesse tutto il tempo del mondo.
Io mi destreggio, mantengo il mio consueto basso profilo, lavoro al meglio delle mie possibilità.
Al solito, non faccio amicizia con nessuno.
Per darmi un contegno, ignoro pure i vips. Non disturbo mai il Gran Tizio Stilista. Faccio ciò che devo.
Odoro di fuori luogo, e temo che qualcuno fiuti l'inconfondibile tanfo d'infiltrato: vivo come una colpa il fatto di non desiderare in fondo nient'altro che arrivare illeso a fine giornata.
Fatemi fare, fatemi andare: non sono timido, sono serio e sono a disagio ai vostri buffet di sfizioso chiacchiericcio, di ricco piluccare milanese. Ho lo stomaco modesto, ma la mia è fame vera. E so di non saperlo nascondere.
Tutto crolla il secondo giorno.
Il lacchè magrebino piomba sbraitando che qualcuno gli ha sottratto dal camerino il suo preziosissimo mac nuovo. È un farinelli in pieno attacco epilettico: scomposto, schiuma e sbraccia a casaccio urlando frequenze ben chiare solo ai cani del vicinato.
Inevitabilmente, sento montare il consueto senso di colpa: prima o poi, uno sguardo inquisitore si poserà sulla mia evidente e inopportuna coda di paglia in erezione.
E infatti.
I suoi, i loro sospetti sono in qualche modo fondati, lo so.
Sono colpevole, è evidente. Lo ero ben prima che succedesse qualcosa. 
E resterò colpevole pure quando poco dopo il vecchio leccaculo ritroverà il suo giocattolo, abbandonato con stronzissima noncuranza sul tettuccio della sua stronzissima mini cooper.

È la piazza, adesso, a urlarmi il destino di questo mio disonorevole sfigatissimo disagio: sei fatto così, e tanto vale. Ruba il laptop, rubalo davvero e non scappare, mostralo a tutti alzandolo al cielo e liberati, liberati dagli sguardi e dai sospetti confermandoli, limonati il panettiere fascio e fallo con autentica devastatrice passione, mostrati colpevole, sbagliato e affamato, e poi immergiti con leggerezza tra i tuoi pari, a scomparire.