lunedì 18 marzo 2013

ancora inverno.

Il diffuso sentire - diciamo almeno un po' oltre l'affacciarsi d'un sospetto, ecco - che le vite degli altri siano sempre più semplici delle nostre è sintomo dell'universale deficit d'empatia o indizio di come ciascuno di noi sia effettivamente intrappolato nella vita sbagliata? Ci rifletto oziosamente mentre fa notte, sdraiato pancia a terra nel bosco dietro la villetta, osservandolo mentre, nella sua insignificante cameretta tutta legno laccato e gagliardetti da ruralbimbo sfigato, si abbottona la polo. Si specchia, non sa cosa fare dell'ultimo bottone: liberare un po' di pelle, o dar l'impressione che tutto sia a posto fino in fondo?
Ho male alla schiena. I reni, probabilmente. Ho molto freddo.
Sta per uscire? Inizia a nevicare. Sicuramente andrà a troie, cos'altro potrebbe fare? Non hai amici, me l'hai confessato quella volta là in cui cercavi complicità alla macchinetta del caffè.
Come sempre e come tutti, cedo alla contemplazione dei fiocchi: il fatto che il nostro faccia-a-faccia con la natura sia così incline a diventare un'esperienza psichedelica vorrà pur dire qualcosa, no? Mah. Guarda, guarda il cielo e come poco a poco perda senso l'idea stessa di precipitare. Solo la lentezza è inesorabile. È evidente. Ma devo rimanere lucido, ora, concentrato.
Oppure potrei rimanere qui, farmi ricoprire per poi lasciarmi andare alla vita breve, intensa e disordinata dei vermi sotto le pietre.

Per quasi un paio d'anni, saltuariamente, durante e dopo la laurea, ho provato a collaborare con una piccola casa di produzione tivvù. Il proprietario faceva mostra di sé con una certa parsimonia, forse parzialmente conscio d'apparire come ciò che effettivamente era, una sorta di grosso pappone semianalfabeta, un tipo vagamente minaccioso da completo marròn e cravatta giallo-oro: noi partecipanti a vario titolo all'impresa eravamo tutti ben convinti che l'attività fosse in realtà una copertura per qualche altra attività ancora più sgangherata e ignobile. Lo "sceneggiatore capo" era un nerd quarantenne impiegato in regione, motivo per cui nessuno degli altri capetti metteva mai più di tanto in discussione la sua parola: attraverso di lui passavano i finanziamenti o, meglio, la speranza di futuri finanziamenti. Liquidava le mie idee spiegandomi con sufficienza come, per scrivere, bisognasse prima aver vissuto, ed io ero decisamente troppo giovane per aver immagazzinato e compreso un numero significativo d'esperienze. Lui, piccolo, unto, grasso e coi capelli setolosi tipici chissà perché dei democristiani, divideva la propria esistenza tra l'ufficio, la scrittura d'insulse poesie e il corteggiamento intenso e disperato d'una attricetta dark folle, puzzona e dislessica col volto perennemente spalmato di cerone bianco. Si definiva dramaturg, lui, e sfiderei chiunque, vedendolo, a non scommettere che fosse un piccolo burocrate con l'hobby di tirar su barchette nelle bottiglie di vetro. Amava la grappetta dopo le passeggiate in montagna d'estate, i calzini bianchi da ginnastica dentro i mocassini consumati e parlar di figa sfoggiando la competenza d'un quindicenne e la morbosità del prete di paese. Suo maggior sostenitore era il regista dell'allegra combriccola, un cameramen di sky specializzato in riprese calcistiche che sognava di fare il gran salto nel dorato mondo della fiction: millantava amicizie di quelle che contano, ed esibiva la classica sicumera degli uomini intorno al metro e cinquanta d'altezza.
Una volta partimmo in quattro-cinque in macchina per fare un sopralluogo in un vicino motel con pretese di gran lusso: il dramaturg stava componendo un musical per una fantomatica compagnia di danza rumena che s'era resa disponibile, anche economicamente, alle sue ardite sperimentazioni. Il motel, il suo ampio salone e la sua splendida terrazza vista strada statale erano la location ideale, per quella coraggiosissima produzione dall'innegabile slancio artistico. Da quei mesi di scrittura approssimativa, di noiosissimi inutili brainstorming, di sogni di grandezza con danze e roteanti tette multicolor stile Las Vegas, tutto ciò che uscì fuori fu il pranzo improvvisato ma ugualmente luculliano che scroccammo quel giorno al motel, e quella fu dunque, molto probabilmente, la giornata più produttiva in assoluto dell'incredibile team di cui m'ero provvisoriamente trovato a far parte, ingenuamente rassegnato alla più cialtronesca delle gavette. Se non ricordo male, rimediai delle tagliatelle al tartufo. Buttale via.
Quando ebbi l'onore di leggere il copione del musical, anziché sperticarmi nelle previste lodi a cotanto genio adiposo osai far presente con evidente falsa timidezza e studiatissima modestia che, oltre a musica e danze, lì dentro forse mancavano pure storia, idee e sviluppo: apriti cielo. Per la prima volta, il dramaturg perse davvero le staffe e prese ad investirmi con vocetta tremula. Io, in tutta risposta, senza perdere la calma, azzardai "posso almeno correggere l'italiano, almeno gli errori di grammatica?"
Ecco, da quel giorno i tizi iniziarono seriamente a disprezzarmi, e se non mi lasciarono a casa fu solo, suppongo, per la sadica soddisfazione di veder bloccato lì, pagato con un misero rimborso spese, qualcuno con curriculum e futuro potenzialmente più promettenti dei loro. Potenzialmente.
Di quei mesi, ho ben presente il ricordo della raggiunta piena consapevolezza di come la calma assoluta sia davvero qualcosa capace di destabilizzare gli imbecilli. Anche se, lo so, suona tutto sommato piuttosto meschino, era qualcosa che mi dava particolare goduria, all'epoca.
Per dire di quanto perfezionai masochisticamente quella mia tecnica passivo/aggressiva: in quello stesso periodo, una sera al bar, sfinito da ore di quelle mie piccole sentenze sostenute con placida esasperante nonchalance, l'amico stronzo d'un caro amico con un balzo sorvolò il tavolino che ci divideva per scaraventarmi con lui a terra e saettarmi la faccia di pugnetti.
Ci sono infiniti modi, suppongo, per incanalare la violenza. Manipolare, gestire ad arte quella altrui, o avere la pretesa di farlo, è indubbiamente una forma d'estrema ferocia, e in quanto ragazzetto supponente e fondamentalmente debole non potevo non subire l'attrazione di quella mollezza falsa e prevaricatrice.
Comunque sia, un pomeriggio, nell'ufficetto smunto dello smunto dramaturg, dopo aver accolto l'ennesima lezioncina di scrittura creativa con il consueto distillato di fiacca sufficienza, ricordo che il regista afferrò una pistola di scena e, stringendomi il collo con il braccio sinistro per immobilizzarmi (io ero seduto, lui in piedi alle mie spalle), mi schiacciò forte la bocca della pistola sulla testa. Non ricordo cosa mi urlò, ma urlò. Uno scherzo, niente di più, certo, ma riconoscere chiaramente la spinta che ne stava alla base mi lasciò atterrito e pure parecchio confuso, poiché mi sentivo inaspettatamente sporco, colpevole e denudato: quella brutalità simulata colpiva con una certa precisione la mia prepotenza dissimulata, disvelando come tutto quanto stesse avvenendo all'interno della medesima gretta messa in scena.

Tutto questo riesco a metterlo a fuoco solo ora, a distanza di anni, solo ora che un inizio di maturità mi fa tardivamente apprezzare e desiderare l'umanità bella del corpo a corpo, contrapposta al silenzio e all'urlo ugualmente vuoti con cui si riempiono vite e piazze ugualmente tristi.
O forse sarà che a forza d'incassare schiaffi a uno poi, alla lunga, vien voglia di pugni, di qualcosa che miri non all'umiliazione ma ad un'autentica devastazione.
M'avete preso al fegato per una vita. Miriamo alto, ora, per favore, cosicché ci riesca infine di guardarci in faccia.

Dei colleghi mi raccontarono che, una volta, alla stazione hai quasi picchiato un barbone. Lo conoscono un po' tutti, quel barbone: si avvicina e chiede se "per caso" hai un panino per lui. Da sedicente uomo di marketing, avresti dovuto apprezzare il suo tentativo di estrema specializzazione, la sua contemporaneissima idea di limitare l'offerta (della sua domanda) al monoprodotto, ma sei uno di quelli che misurano la propria forza solo nello scontro con le debolezze altrui, e così hai preso a spintonarlo abbaiandogli in faccia, sicuro d'apparire vincente e integerrimo al tuo onnipresente venerante pubblico immaginario. Sei la maledetta merda trionfante, e l'idea di poterti trovare, io, una nuova inattesa inedita collocazione all'interno delle storie di tutte le vite che abbiamo anche solo sfiorato trasforma in piacere, ora, i brividi del gelo. Sei la mia personalissima preziosissima minuscola rivolta, e non avrai altro posto che questo, nel mondo.
Non mangio da giorni: voglio essere tutto pelle e odio. Tutto pelle e odio, tutto per te.
Ti mangerei tutto, cazzo.


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